terre e rocce da scavo

Terre e rocce da scavo: il D.P.R. 13 giugno 2017

Analisi tecnico-giuridica a cura di ambientelex.it

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 7 agosto 2017, n. 183, è entrato in vigore il Decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 2017, n. 120 “Regolamento recante la disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo”.

Questo provvedimento ha rappresentato un passo importante nel quadro normativo ambientale nazionale, in quanto ha operato, in attuazione dell’articolo 8 del D.L. 12 settembre 2014, n. 133 (c.d. “Sblocca Italia”), un riordino organico e una semplificazione sistematica della disciplina concernente la gestione delle terre e rocce da scavo (TRS), sia nel caso in cui fossero considerate come sottoprodotti, che nel caso in cui fossero qualificate come rifiuti.

Il Regolamento DPR 120/2017 ha rappresentato un punto di svolta rispetto alla normativa precedente, poiché ha accorpato e razionalizzato disposizioni che, pur trattando il medesimo oggetto giuridico, risultavano precedentemente sparse in fonti eterogenee, generando sovrapposizioni, ambiguità e disallineamenti interpretativi.

Tra gli elementi di maggiore rilievo spicca l’ampliamento dei limiti quantitativi ammessi per il deposito temporaneo, intervento normativo atto a favorire soprattutto la gestione logistica delle grandi opere infrastrutturali, potenzialmente soggette a vincoli autorizzativi complessi.
Il D.P.R. 120/2017 ha introdotto infatti una distinzione fondamentale tra:

  • grandi cantieri, nei quali il volume di terre e rocce da scavo supera i 6.000 metri cubi;
  • piccoli cantieri, in cui il volume rimane contenuto entro tale soglia.

Tale distinzione è ulteriormente articolata in funzione della sottoposizione o meno del cantiere a procedimenti di VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) o di AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale), delineando un sistema regolatorio a geometria variabile, improntato al principio di proporzionalità.

È altresì disciplinata la gestione del materiale di scavo nei siti sottoposti a interventi di bonifica ambientale, nonché il suo riutilizzo, sia all’interno del medesimo sito di produzione, sia in siti differenti, secondo condizioni tecniche e giuridiche dettagliatamente previste.

Il D.P.R. n. 120/2017 era atteso da tempo; la sua adozione, infatti, era stata demandata fin dal 2014 dal legislatore nazionale nell’ambito del menzionato “Sblocca Italia”, che all’articolo 8 affidava espressamente a un decreto del Presidente della Repubblica il compito di operare un riassetto normativo coordinato della materia. Tale compito doveva essere esercitato nel rispetto di precisi criteri e indirizzi, poi codificati e sistematizzati all’interno del provvedimento stesso

In particolare, si deve riconoscere, che il nuovo regolamento ha raggiunto l’obiettivo della coerenza sistematica di cui alla lettera a) del mandato legislativo, in quanto ha realizzato una confluenza normativa che ingloba in un unico testo tutte le disposizioni, anche precedentemente frammentate, relative alla gestione delle terre e rocce da scavo.


Altro traguardo, previsto alla lettera c) del mandato legislativo, e concretizzatosi nel D.P.R. n. 120/2017 è rappresentato dal principio di proporzionalità, che è stato attuato distinguendo le procedure e gli adempimenti applicabili ai grandi cantieri da quelli validi per i piccoli cantieri. Questi ultimi, in linea con la normativa previgente, hanno continuato e continuano oggi a godere di un regime semplificato, tanto nella sostanza quanto nella forma.

Diversamente, i grandi cantieri – aventi un impatto significativo sull’assetto economico e infrastrutturale del Paese – sono stati assoggettati a un regime più articolato e stringente, coerente con la loro rilevanza tecnica e ambientale. In tale contesto, l’ampliamento dei limiti quantitativi per il deposito temporaneo (previsto alla lettera a-bis) dell’indirizzo normativo) ha consentito una più agevole gestione del materiale di scavo nelle fasi intermedie del cantiere.

È stata accolta con favore anche l’introduzione di una disciplina specifica e dettagliata del deposito intermedio delle terre/sottoprodotti, aspetto non sufficientemente trattato nella normativa pregressa.

Tuttavia, a distanza di quasi 20 anni dall’entrata in vigore del Regolamento TRS 2017, permangono criticità interpretative e applicative, in particolare per quanto riguarda:

  • la gestione del riutilizzo in situ, ovvero all’interno dello stesso sito di produzione, che può presentarsi in forme ambigue sia sotto il profilo tecnico che giuridico;
  • la distinzione tra sottoprodotti e materiali esclusi dalla disciplina dei rifiuti, che resta concettualmente poco nitida e potenzialmente in contrasto con il divieto di gold plating (ovverosia il divieto EU, ribadito alla lettera d) della delega normativa, di introdurre livelli di regolazione superiori a quelli previsti dal diritto dell’Unione europea, come sancito dalla direttiva 2008/98/CE).
  • l’adozione di obblighi formali (a proposito di gold plating) che, se non rispettati, determinano la trasformazione automatica delle terre in rifiuti (previsione che appare in evidente contrasto con il divieto di cui innanzi e col principio di prevenzione nella produzione dei rifiuti che rischia di penalizzare operatori economici virtuosi per mere carenze documentali).
  • l’annosa questione della “normale pratica industriale”, concetto che, pur costituendo uno dei criteri fondamentali per la qualificazione del materiale escavato come sottoprodotto, non è stato chiaramente definito dal regolamento, e la cui applicazione resta affidata all’interpretazione giurisprudenziale e all’esperienza concreta degli enti di controllo. (da segnalare, ad esempio, l’eliminazione da parte del DPR 120 del trattamento a calce delle TRS – prassi molto diffusa ad es. in presenza di terreni argillosi– che rende ancora più problematica l’individuazione dei confini tra operazioni consentite e trasformazioni vietate).

Quanto alla struttura il Regolamento TRS 2017 è articolato in 31 articoli, suddivisi in 6 titoli, ed è corredato da 10 allegati tecnici, che rappresentano la base applicativa di riferimento per la caratterizzazione ambientale, il campionamento, le procedure operative e la documentazione necessaria per il corretto inquadramento delle terre e rocce da scavo.

Seguono, in breve, le disposizioni, secondo l’articolazione originale del decreto, che da quasi 20 anni  orientano gli operatori, i tecnici ambientali, i giuristi e gli amministratori pubblici nell’intricata selva delle terre e rocce sa scavo.

Disposizioni generali: oggetto e finalità, definizioni ed esclusioni (artt. 1–3)

Il quadro regolamentare introdotto dal D.P.R. 13 giugno 2017, n. 120 fonda la propria struttura normativa su tre direttrici principali, chiaramente esplicitate sin dall’articolo 1.

Il primo articolo definisce l’oggetto e le finalità del Regolamento, stabilendo che esso si applica:

a) alla gestione delle terre e rocce da scavo qualificate come sottoprodotti, ai sensi dell’articolo 184-bis, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (norma cardine per la qualificazione di una sostanza come sottoprodotto), provenienti da cantieri di piccole dimensioni, di grandi dimensioni e di grandi dimensioni non assoggettati a VIA o a AIA, compresi quelli finalizzati alla costruzione o alla manutenzione di reti e infrastrutture;
b) alla disciplina del deposito temporaneo delle terre e rocce da scavo qualificate rifiuti (secondo quanto stabilito dall’articolo 183, comma 1, lettera bb) del TUA).

Questa triplice articolazione dell’ambito operativo – esclusione, sottoprodotto, rifiuto – ha consentito di integrare organicamente la normativa ambientale con quella sui rifiuti, colmando un vuoto sistemico determinato, in passato, dalla compresenza di fonti disorganiche, tra cui si ricordano il D.M. 10 agosto 2012, n. 161, il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 e una molteplicità di disposizioni regionali, spesso difformi e poco coordinate.

Del resto, la finalità principale del regolamento è stata quella di riordinare e semplificare la disciplina pre-vigente, attribuendo certezza giuridica e uniformità applicativa a un settore tecnico-normativo ad alto impatto economico e ambientale.

Fondamentale, per comprendere l’effettiva portata applicativa del decreto 120/2017, è l’articolo 2, che ha introdotto una serie articolata di definizioni giuridiche e tecniche, destinate a diventare, nel corso degli anni successivi, il riferimento semantico dell’intera disciplina.
La più rilevante è certamente quella di “terre e rocce da scavo”, intese come il suolo escavato nel corso di attività eseguite per la realizzazione di un’opera, indipendentemente dalla natura e dalla finalità della stessa. L’elenco delle attività comprese in tale nozione – che ha carattere esemplificativo e non tassativo – comprende lo sbancamento, le fondazioni, la realizzazione di trincee, le perforazioni, le trivellazioni, la palificazione, il consolidamento del terreno, nonché tutte le opere infrastrutturali, tra cui gallerie e strade.
La norma, inoltre, ha espressamente previsto che la qualifica di sottoprodotto non venga meno anche in presenza di materiali “fisiologicamente” utilizzati in certe tecniche di scavo. In tal caso, però, l’elenco è tassativo e comprende il calcestruzzo, la bentonite, il PVC, la vetroresina, le miscele cementizie e gli additivi per scavo meccanizzato, come meglio specificato nell’Allegato 4 del decreto.

S’é trattato di una novità rilevante rispetto alla normativa precedente perché ha ricondotto alla definizione unitaria di “terre e rocce da scavo” anche quelle frazioni miste a “componenti tecnici” purché, tali componenti, fossero riconosciuti come strumentali e non alteranti le caratteristiche ambientali del materiale. Il legislatore ha voluto, così, evitare interpretazioni eccessivamente restrittive, stabilendo che la presenza di materiali accessori tecnici non volontari non snatura, di per sé, la possibilità di qualificare le terre come sottoprodotti.

Il decreto ha, inoltre, introdotto definizioni aggiuntive fondamentali ai fini applicativi della norma. Tra queste, si segnalano:

  • il concetto di “sito”, da intendersi come una porzione di territorio geograficamente definita e perimetrata;
  • la nozione di “opera”, qualificata come il risultato di un insieme di lavori che, nel loro complesso, esplicano una funzione economica o tecnica;
  • la figura del “proponente”, identificato come il soggetto che presenta il piano di utilizzo delle terre;
  • quella dell’“esecutore”, ovvero il soggetto che materialmente realizza l’opera e applica il piano;
  • infine, quella del “produttore”, inteso come colui che genera materialmente le terre e rocce da scavo.

La distinzione tra queste ultime tre figure –proponente, esecutore e produttore– si è dimostrata tutt’altro che teorica, in quanto rivelatasi rilevante sotto il profilo della responsabilità giuridica, della redazione e sottoscrizione dei documenti, nonché nella fase di trasmissione delle dichiarazioni alle autorità competenti. E’ stato, però ,osservato come tale articolazione non trovando una perfetta sovrapposizione con la definizione di “produttore di rifiuti” contenuta nell’art. 183 del D.Lgs. n. 152/2006, che comprende sia il soggetto materialmente produttore, sia colui al quale tale produzione può essere giuridicamente riferita, ha generato incertezze nella gestione dei rapporti tra committente, appaltatore e subappaltatore, tanto in sede operativa quanto in sede giudiziaria.

Infine, con l’articolo 3 è stata fornita una “delimitazione in negativo” del perimetro di applicazione del Regolamento, individuando con chiarezza le esclusioni esplicite dalla disciplina. In particolare, sono stati esclusi:

  • i rifiuti derivanti da demolizione, come macerie e materiali lapidei;
  • il refluo a mare regolato dall’art. 109 del D.Lgs. 152/2006;
  • i materiali litoidi in genere, ovvero tutte le frazioni granulometriche derivanti da escavazioni in alvei di corsi d’acqua, spiagge, fondali marini e lacustri.

Quest’ultima esclusione ha segnato un distacco netto rispetto al quadro definitorio previgente, soprattutto in relazione al D.M. n. 161/2012, che ricomprendeva espressamente tali materiali. Questa scelta del legislatore del 2017 è stata dovuta all’intervenuta adozione di una disciplina separata, frutto di tre distinti decreti ministeriali (D.M. 8 giugno 2016; D.M. 15 luglio 2016, nn. 172 e 173), che hanno regolato le operazioni di dragaggio nei siti di interesse nazionale e le condizioni tecniche per l’autorizzazione all’immersione in mare dei materiali escavati.

Tuttavia, è bene precisare che l’esclusione operata dall’articolo 3 non ha precluso affatto, sul piano giuridico, la possibilità di qualificare come sottoprodotti altri materiali – diversi dalle terre e rocce da scavo – laddove ricorrano le condizioni stabilite dall’art. 184-bis del D.Lgs. 152/2006.
In tale senso, la giurisprudenza del Consiglio di Stato, nel corso degli anni, ha più volte riconosciuto la possibilità di configurare, caso per caso, materiali come il fresato d’asfalto o i residui di demolizione come sottoprodotti, purché fossero rispettati i quattro requisiti normativi: certezza dell’utilizzo, possibilità di utilizzo diretto senza trattamento diverso da quello ammesso come normale pratica industriale, produzione integrata nel processo, e conformità ai requisiti previsti dalla normativa settoriale. È proprio l’articolo 184-bis a rappresentare, infatti, la chiave di lettura fondamentale per comprendere l’intero impianto del D.P.R. 120/2017 e sarà ad esso che il Regolamento farà continuo riferimento anche nelle disposizioni successive.
Il D.P.R. n. 120/2017, dunque, non si è limitato a definire un confine tra sottoprodotto e rifiuto, ma ha costituito un vero e proprio sistema dinamico di qualificazione giuridico-tecnica del materiale scavato, fondato su criteri ambientali, tecnologici e formali.

Disposizioni comuni a tutti i cantieri (articoli 4–7)

Con l’articolazione contenuta nel Capo I del Titolo II, il Regolamento ha posto le basi applicative comuni per l’inquadramento delle TRS come sottoprodotti, fornendo una cornice normativa valida per tutti i cantieri, a prescindere dalla loro dimensione o dalla sottoposizione a procedimenti di VIA o AIA. Si tratta di norme fondamentali, da cui derivano gran parte degli obblighi sostanziali e procedurali a carico degli operatori.

L’articolo 4, Criteri per qualificare le terre e rocce da scavo come sottoprodotti, ha rappresentato la colonna portante della disciplina, poiché ha dettato i criteri oggettivi e documentali che consentono la qualificazione delle terre e rocce da scavo come sottoprodotti. La norma rinvia implicitamente ma sistematicamente all’art. 184-bis del D.Lgs. n. 152/2006, confermandone i quattro requisiti cumulativi: certezza dell’utilizzo, utilizzo senza trattamenti eccedenti la “normale pratica industriale”, produzione integrata nel processo produttivo e rispetto della normativa di settore, in particolare dei limiti ambientali.

In particolare, il comma 2 chiarisce che il riutilizzo può avvenire sia nello stesso sito di produzione (in situ) che in siti differenti, a patto che il nuovo utilizzo sia certo, conforme e giustificato da esigenze progettuali. La differenza sostanziale tra “in situ” e “ex(tra) situ” verrà poi approfondita nel commento all’art. 24, dedicato alla gestione delle terre escluse dalla disciplina sui rifiuti.

Un passaggio cruciale è rappresentato dal comma 3, che ha introdotto una norma specifica per i cd. “materiali di riporto”, distinguendoli espressamente dai materiali (di riporto) “fisiologicamente impiegati” nelle tecniche di scavo. I materiali di riporto, ai sensi dell’art. 3, comma 1, del D.L. 25 gennaio 2012, n. 2 (convertito nella legge n. 28/2012), modificato dall’art. 41, comma 3, lett. a), del D.L. n. 69/2013 (convertito nella legge n. 98/2013), sono definiti come una miscela eterogenea di materiali di origine antropica (residui di produzione e consumo) e di terreno, che forma un orizzonte stratigrafico riconoscibile rispetto alle caratteristiche geologiche naturali del sito.

Il Regolamento ammette la presenza di materiali di riporto fino a un massimo del 20% in peso (da determinarsi con la metodologia di cui all’Allegato 10) nelle terre da scavare, a condizione che:

  • tali materiali rispettino le concentrazioni soglia di contaminazione (CSC);
  • superino il test di cessione secondo il D.M. 5 febbraio 1998 (o valori di fondo naturale);
  • siano idonei all’uso previsto.

Nel comma 4 è stata disciplinata una questione particolarmente delicata, ovvero la presenza di amianto naturale affiorante. In questi casi, il riferimento normativo è la tabella 1, allegato 5, titolo V, parte IV del D.Lgs. 152/2006, che fissa una CSC per l’amianto a 1.000 mg/kg, valore confermato dal parere della Commissione Ambiente del Senato. L’amianto, tuttavia, è escluso dall’obbligo di test di cessione: ciò implica che il solo superamento del valore limite, se non trattato adeguatamente, preclude la possibilità di utilizzo delle terre e rocce come sottoprodotti.

Infine, il comma 5 ha stabilito che la sussistenza dei requisiti deve essere documentata ex ante, mediante:

  • la redazione e trasmissione del piano di utilizzo per i grandi cantieri;
  • la dichiarazione di utilizzo per gli altri cantieri;
  • e, dopo i lavori, la dichiarazione di avvenuto utilizzo (DAU), comune a tutte le fattispecie.

Il Regolamento ha affidato all’art. 5 il tema del “deposito intermedio”, una situazione gestionale molto diffusa nella prassi e normata, senza poche difficoltà, dal D.M. 161/2012.

Il D.P.R. 120/2017 ha espressamente stabilito che il deposito intermedio possa avvenire:

  • nel sito di produzione;
  • nel sito di destinazione;
  • o in un terzo sito, purché rientri nella filiera autorizzata.

La possibilità di utilizzare un deposito diverso è stata subordinata al rispetto di cinque requisiti cumulativi:

  1. Compatibilità urbanistica tra il sito di produzione e quello di deposito.
  2. Indicazione preventiva della localizzazione e della durata.
  3. Durata non superiore al termine di validità del piano o della dichiarazione.
  4. Separazione fisica e gestione autonoma rispetto ad altri materiali (altri sottoprodotti o rifiuti).
  5. Conformità al piano/dichiarazione e presenza di apposita segnaletica, indicante tutte le informazioni essenziali.

Il mancato rispetto anche solo di uno di questi requisiti comporta, però, la perdita della qualifica di sottoprodotto, con conseguente regressione in rifiuto del materiale stoccato.
Tale effetto automatico, come si diceva in premessa, sembra essere eccessivamente punitivo e suscettibile di censura sotto il profilo del divieto di gold plating, stante che la normativa europea non prevede simili automatismi.

Il successivo art. 6 ha disciplinato il trasporto dei sottoprodotti, imponendo l’utilizzo di un documento di trasporto conforme al modello contenuto nell’Allegato 7 del decreto. Il DDT (e dunque non un FIR) deve accompagnare il carico in almeno tre copie (quattro, nel caso in cui proponente ed esecutore non coincidano) e deve contenere:

  • dati identificativi del produttore e del trasportatore;
  • origine e destinazione delle terre;
  • riferimenti al piano o alla dichiarazione di utilizzo;
  • quantità e data del trasporto;
  • estremi del veicolo utilizzato.

Il documento, come da intenzioni del Legislatore, ha egregiamente svolto la funzione di tracciabilità ambientale, analoga al formulario rifiuti, ma adattata alla logica del sottoprodotto. Si è rivelato un utile strumento per controlli ex post, cui sono legittimati gli organi di vigilanza (Arpa, autorità locali, Polizia giudiziaria ambientale).

L’art. 7, Dichiarazione di Avvenuto Utilizzo (DAU), ultima disposizione del titolo II, prevede che, al termine dell’utilizzo, deve essere trasmessa all’autorità competente e all’Arpa la dichiarazione di avvenuto utilizzo (la cd. DAU), secondo il modello contenuto nell’Allegato 8. Tale dichiarazione può essere inviata anche per via telematica, entro il termine di validità del piano o della dichiarazione.

La mancata trasmissione nel termine previsto, pur in presenza di un utilizzo effettivo e conforme, comporta la “trasformazione” retroattiva del materiale in rifiuto, con gli evidenti profili di incongruità giuridica di cui dianzi. In questo caso, la comminata regressione davvero eccessiva in quanto non si è in presenza di incertezza sull’utilizzo – che è già avvenuto – bensì di un mero vizio formale documentale. Tale previsione è in continuità con il D.M. 161/2012 ma, anche alla luce della ratio del decreto “Sblocca Italia” e del divieto di gold plating, è stata sin da subito considerata come sproporzionata rispetto agli obiettivi di prevenzione nella produzione dei rifiuti sanciti dalla direttiva 2008/98/CE.

Grandi cantieri sottoposti a VIA o AIA (articoli 8–19)

Nel quadro della nuova disciplina unificata, i cantieri di grandi dimensioni sottoposti a VIA o AIA sono stati assoggettati ad un iter procedimentale particolarmente articolato e stringente, riflesso della maggiore complessità e impatto ambientale delle opere in essi previste.

L’articolazione normativa si sviluppa su dodici articoli (dall’ 8 al 19), con una progressione logica che inizia dalla definizione dell’ambito applicativo e si conclude con gli obblighi documentali e informativi in capo agli enti di controllo.

L’articolo 8 ha delineato l’ambito di applicazione, stabilendo che la disciplina in questione si applica alle terre e rocce da scavo prodotte in cantieri di grandi dimensioni, ovverosia con una produzione di TRS superiore a 6.000 m³ e sottoposti a procedura VIA o AIA. Non rileva, a tal fine, se il riutilizzo avvenga nel medesimo sito o in un sito diverso: la soggezione alla disciplina discende unicamente dalla quantità di materiale escavato e dalla presenza del procedimento autorizzativo ambientale.

Il cuore procedurale della disciplina è contenuto nell’articolo 9, che impone la redazione di un piano di utilizzo (PUT piano utilizzo terre), secondo il modello contenuto nell’Allegato 5. Tale piano deve essere trasmesso, a cura del proponente, all’autorità competente e all’Arpa almeno 90 giorni prima dell’inizio dei lavori. Qualora l’opera sia soggetta a VIA o AIA, la trasmissione del piano deve avvenire prima della conclusione del relativo procedimento. È una disposizione essenziale, poiché il piano viene valutato in sede di autorizzazione ambientale e non può essere adottato ex post. Ad esso va allegata una dichiarazione sostitutiva di atto notorio – resa ai sensi dell’art. 47 del D.P.R. 445/2000 – che attesti non solo la conformità del materiale ai requisiti di cui all’art. 4, ma anche l’aderenza alla nozione di “normale pratica industriale” di cui all’Allegato 3.È stato giustamente osservato come questa ultima attestazione sia particolarmente delicata, in quanto non solo la valutazione sulla “normale pratica industriale” non di rado si è dimostrata essere controversa (quando una pratica industriale è “normale”? cos’è una “pratica industriale”?) ma anche perché una dichiarazione infedele su questo punto, essendo resa sotto forma di atto notorio, può integrare una fattispecie penalmente rilevante.

Ricevuto il piano, l’autorità competente verifica d’ufficio la completezza e correttezza amministrativa della documentazione e può chiedere eventuali integrazioni entro 30 giorni. Decorsi 90 giorni dalla presentazione (o dalla consegna delle integrazioni), il proponente può dare avvio alla gestione delle terre in conformità al piano e alle norme vigenti per la realizzazione dell’opera.

Particolarmente rilevante è il comma 8 dell’articolo 9, che ha introdotto la possibilità per il proponente di richiedere, con oneri a proprio carico, una “validazione preliminare” del piano e/o controlli preventivi. Queste attività, definite facoltative, possono essere affidate non solo all’ARPA, ma anche ad “altri organi dell’amministrazione pubblica o enti pubblici dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollente”.

Gli articoli da 10 a 13 indicano le condizioni ambientali che devono sussistere affinché le terre e rocce da scavo possano essere considerate sottoprodotti idonei al riutilizzo.

L’articolo 10 si occupa delle terre e rocce da scavo che risultano conformi alle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) previste dalla normativa vigente.
Mentre diverso e più complesso è il discorso inerente terre e rocce con concentrazioni che superano le CSC ma risultano “pari o inferiori ai valori di fondo naturale”. In questo scenario il proponente è tenuto a segnalare il superamento alle autorità, secondo le modalità previste dall’art. 242 del D.Lgs. 152/2006, anche se tale riferimento appare improprio: l’articolo 242 si riferisce infatti al “responsabile della contaminazione”, mentre il “proponente”, in questo caso, assume il ruolo di gestore o proprietario. Più opportuno sarebbe stato un richiamo all’articolo 245. Ad ogni buon conto, l’obiettivo della comunicazione, comunque, non è l’apertura di una procedura di bonifica, ma la definizione – in accordo con ARPA – di un piano di indagine per determinare i valori di fondo naturale. Tuttavia, anche tale assunzione non ha efficacia automatica: la validità dei valori di fondo proposti resta subordinata alla condivisione da parte dell’agenzia. In caso contrario, il sito sarà considerato potenzialmente contaminato, con le conseguenze previste dal titolo V per i siti in bonifica.

Per i materiali che provengono da siti già oggetto di procedimenti di bonifica, trova invece applicazione l’articolo 12, che ha introdotto uno specifico sistema di gestione da attuarsi in coordinamento con l’autorità procedente.

Particolarmente innovativa è stata l’introduzione, all’articolo 13, del cd. “controllo equipollente”. Si tratta di una modalità di validazione tecnico-ambientale alternativa, che consente al proponente di avvalersi di analisi chimiche e tecniche già effettuate nell’ambito di altri procedimenti, purché equivalenti per obiettivi e parametri analizzati. Tale opzione è stata considerata coerente con i principi di semplificazione e non duplicazione degli adempimenti ambientali, ma implica una valutazione discrezionale da parte delle autorità coinvolte.

L’efficacia del piano di utilizzo è stata regolata con l’articolo 14, che ne fissa la durata in un anno a partire dalla data di produzione delle terre, salvo proroga.

Una volta predisposto e trasmesso il piano secondo quanto previsto dall’art. 9, la normativa stabilisce che esso debba essere messo in pratica entro un termine massimo di due anni dalla presentazione, a condizione che i lavori abbiano avuto effettivo inizio entro tale periodo. La ratio di tale previsione è chiaramente quella di evitare che autorizzazioni ambientali restino in sospeso o si cristallizzino nel tempo, perdendo aderenza rispetto allo stato effettivo del sito o del progetto. Il regolamento prevede, tuttavia, che la durata del piano possa essere prorogata, ma una sola volta, e per un ulteriore periodo non superiore a due anni, nel caso in cui intervengano circostanze sopravvenute, impreviste o imprevedibili che impediscano la conclusione dell’intervento nei termini originari. Anche in questo caso, l’ampiezza della proroga è lasciata alla valutazione dell’autorità competente, purché opportunamente motivata, in particolare in relazione alla complessità dell’opera.

È importante sottolineare come il legislatore abbia voluto attribuire un valore prescrittivo rigido alle condizioni contenute nel piano. Infatti, qualora venga meno anche una sola delle condizioni per la qualificazione delle terre e rocce da scavo come sottoprodotti – quelle stesse indicate in modo dettagliato all’art. 4 – queste ultime cessano di essere tali e devono essere trattate come rifiuti, con tutto ciò che ne consegue in termini autorizzativi e gestionali.
Analoga decadenza si verifica nel caso in cui le terre vengano gestite o riutilizzate in difformità dalle previsioni approvate, configurandosi così una sorta di automatismo sanzionatorio, che riflette il persistente timore del legislatore verso gestioni improprie o opache del materiale escavato.

Non sono mancati, come già sottolineato, dubbi sulla proporzionalità di tale automatismo, soprattutto alla luce del principio del divieto di gold plating, il quale impone agli Stati membri di non eccedere quanto richiesto dal diritto dell’Unione nella trasposizione delle direttive ambientali.

Con l’articolo 15 è stata prevista la possibilità di aggiornare il piano, ad esempio per variazioni dei quantitativi o dei siti di destinazione, mentre l’articolo 16 ha limitato ad una sola volta la proroga della durata del PUT ed ha imposto, in caso di aggiornamento o proroga, specifici obblighi di trasmissione documentale.

Nel caso in cui sopraggiungano modifiche al progetto, il regolamento prevede un meccanismo di aggiornamento del piano, che va attivato obbligatoriamente quando si verificano variazioni ritenute rilevanti. Tra queste rientrano, ad esempio, un incremento del volume delle terre superiore al 20%, il cambiamento del sito di destinazione o della tecnologia di scavo, o ancora la modifica del sito di deposito intermedio. L’aggiornamento segue, per tempistiche e modalità, lo stesso iter previsto per la trasmissione del piano originario. È richiesto, inoltre, che la comunicazione dell’aumento volumetrico venga effettuata tempestivamente, entro quindici giorni dalla modifica, pena la perdita della qualifica di sottoprodotto della sola quota eccedente. Anche qui, l’approccio è rigidamente formalistico: superato tale termine, anche in assenza di effettivo impatto ambientale, l’inosservanza comporta una retrocessione giuridica del materiale nella categoria dei rifiuti.

Per evitare abusi o aggiornamenti eccessivamente frequenti, il legislatore ha inoltre stabilito che il cambio del sito di destinazione possa avvenire al massimo due volte, salvo che non si verifichino circostanze oggettivamente imprevedibili. Anche questa limitazione risponde all’esigenza di garantire stabilità alla tracciabilità della filiera e di evitare una eccessiva discrezionalità nella destinazione finale del materiale.

L’articolo 17 riguarda la fase esecutiva ed ha previsto la comunicazione, prima dell’inizio dei lavori, dell’identità dell’esecutore del piano, che, a decorrere da tale comunicazione, è tenuto ad adottare e rispettare le prescrizioni del piano stesso, assumendone responsabilità diretta: «a far data dalla comunicazione di cui al comma 1, l’esecutore del piano di utilizzo è tenuto a far proprio e rispettare il piano di utilizzo e ne è responsabile».

È importante sottolineare che il decreto non ha disciplinato i rapporti contrattuali tra proponente ed esecutore (tipicamente committente e appaltatore), né ha chiarito la distribuzione delle responsabilità civili, penali e amministrative. Si tratta di un vuoto regolamentare che impone in sede contrattuale apposita regolazione dell’intera gestione delle terre e rocce.

Chiudono il Capo II gli articoli 18 e 19.
Il primo ha previsto la formazione, presso ISPRA, di una banca dati nazionale alimentata dalle autorità competenti, cui spetta segnalare tutti i casi in cui siano rilevati superamenti delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) nel corso dei controlli effettuati ai sensi degli articoli precedenti. La creazione di tale archivio consente un monitoraggio su scala nazionale e l’elaborazione di statistiche, elementi oggi essenziali per l’efficacia delle politiche ambientali.
Il secondo ha affidato sempre ad ISPRA la predisposizione di un tariffario volto a determinare i costi sostenuti dalle Arpa per lo svolgimento delle proprie attività. Il fine ultimo è quello di garantire la sostenibilità economica dell’apparato di controllo. Tali costi, come naturale, sono posti a carico del soggetto titolare del piano, secondo il principio del “chi inquina paga” così come avviene per numerose altre attività ambientali soggette a vigilanza pubblica.

A distanza di 8 anni dalla applicazione ben può dirsi che queste disposizioni hanno configurato un sistema robusto, centralizzato e tracciabile, pensato per garantire il controllo sistematico e l’idoneità ambientale del riutilizzo delle terre e rocce estratte e prodotte nei grandi cantieri soggetti a VIA o AIA. Nel complesso dell’esperienza applicativa sin ora fatta, si conferma l’impianto fortemente garantista del D.P.R. 120/2017 nei confronti dell’ambiente: l’attenzione è massima nei confronti della tracciabilità, della qualità ambientale delle matrici escavate e dell’idoneità del loro riutilizzo. Al contempo, però, è innegabile che è stata affidata la buona riuscita della gestione delle TRS ad una fitta rete di adempimenti formali, che – seppure legittimamente volti a tutelare l’ambiente – rischiano in taluni casi di determinare ricadute penalizzanti sproporzionate, come l’automatica trasformazione in rifiuto anche in presenza di mere irregolarità documentali. È un equilibrio sottile che gli operatori di settore , la giurisprudenza e gli enti di controllo ancora oggi stentano a ben calibrare.

Cantieri di piccole dimensioni (capo III, art. 20 e 21).

Nel panorama regolatorio tracciato dal D.P.R. 120/2017, i cantieri di piccole dimensioni, ovvero quelli in cui le terre e rocce da scavo non superano la soglia volumetrica di 6.000 metri cubi, occupano un ruolo di rilievo tanto quanto i cantieri maggiori, pur beneficiando di un impianto normativo più snello e semplificato. L’approccio adottato dal legislatore è consistito, in modo coerente con i principi di proporzionalità richiamati espressamente nella legge delega, nell’adattare i procedimenti già passati in rassegna alle minori dimensioni e potenzialità impattanti degli interventi “under 6.000 mc”.

A differenza di quanto avviene per i grandi cantieri soggetti a VIA o AIA, in questo caso non è richiesto un vero e proprio piano di utilizzo, ma è sufficiente una più agile dichiarazione sostitutiva di atto notorio, redatta ai sensi dell’art. 47 del D.P.R. 445/2000.

Questa dichiarazione, che assolve di fatto la funzione del piano, costituisce il fulcro della disciplina per i piccoli cantieri. Essa deve essere redatta prima dell’avvio dello scavo e inviata almeno quindici giorni prima dell’inizio dei lavori al Comune del luogo di produzione delle terre e all’ARPA territorialmente competente. Il documento, da compilare secondo il modulo standardizzato allegato 6 al regolamento, deve contenere informazioni dettagliate sulla quantità di terre e rocce da movimentare, sui siti di destinazione e, ove previsti, sui depositi intermedi, nonché gli estremi delle eventuali autorizzazioni e i tempi previsti per l’utilizzo dei materiali. Tali tempi non possono, in via generale, eccedere l’anno (e non i 2 dei cantieri maggiori) dalla data di produzione delle terre, salvo che l’opera da cui derivano non preveda un termine superiore.

Una particolare attenzione deve essere prestata alla corretta indicazione dei luoghi di deposito e destinazione, poiché anche in questi casi eventuali variazioni devono essere tempestivamente comunicate e accompagnate da un aggiornamento della dichiarazione, pena la perdita della qualifica di sottoprodotto e la conseguente classificazione delle terre come rifiuti.

Anche in questa sezione della disciplina, dunque, va osservato come la violazione di obblighi prevalentemente formali possa produrre effetti sostanziali rilevanti, un aspetto che – come già rilevato a proposito dei grandi cantieri – ha posto interrogativi circa il rispetto del principio di proporzionalità e del divieto di gold plating.

Va inoltre ricordato che, nonostante la semplificazione procedurale, sono rimaste pienamente applicabili – ove se ne verifichino le condizioni – le medesime cautele tecniche previste per i cantieri maggiori. È il caso, ad esempio, delle situazioni in cui le concentrazioni riscontrate nei materiali da scavo risultino superiori alle CSC ma non eccedano i valori di fondo naturale: anche per i piccoli cantieri, in tali ipotesi, è necessario seguire l’iter previsto dall’art. 11, inclusa la comunicazione all’autorità competente e la validazione da parte di ARPA. Analogo discorso vale per i siti interessati da procedimenti di bonifica: in tal caso, la gestione delle terre dovrà conformarsi alla disciplina dell’art. 12, con tutti i correlati obblighi di controllo preventivo.

Un elemento interessante, che ha distinto ulteriormente i piccoli cantieri da quelli di maggior entità, riguarda l’individuazione dei soggetti coinvolti. In assenza del piano di utilizzo, e quindi della necessità di designare formalmente un “proponente” e un “esecutore”, la figura di riferimento diventa quella del “produttore”, cioè colui che effettua materialmente lo scavo e rende la dichiarazione. Questa semplificazione ha più volte generato confusioni: anche nei piccoli cantieri, infatti, la distinzione tra committente e appaltatore è rilevante sotto il profilo sostanziale e sotto il profilo della responsabilità. La mancata formalizzazione di tali ruoli nella disciplina normativa ha di fatto imposto agli operatori di settore -ditte, tecnici, professionisti- di dover procedere per ogni cantiere ad una puntuale regolazione dei rapporti contrattuali tra le parti.

Nel complesso, la disciplina prevista per i piccoli cantieri pur distinguendosi per la sua snellezza e pragmatismo non è risultata priva di elementi critici. Se da un lato la sostituzione del piano con una dichiarazione sostitutiva è stata coerente con l’esigenza di non gravare opere di modesta entità con adempimenti eccessivamente onerosi, dall’altro lato il rigore sanzionatorio legato alla mera inosservanza di termini o formalità si è tradotto in riflessi “sanzionatori” eccessivamente rigidi.

Cantieri di grandi dimensioni non sottoposti a VIA o AIA (art. 22)

L’articolo 22 del D.P.R. 120/2017 disciplina i cantieri che, pur producendo volumi superiori a 6.000 m³ di terre e rocce da scavo (e dunque rientrando nella categoria dei “grandi cantieri”), non sono sottoposti a procedimenti di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) o di Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA). Si tratta di una categoria residuale ma tutt’altro che irrilevante, che comprende un numero significativo di interventi infrastrutturali o edilizi per i quali non sono richieste le complesse autorizzazioni ambientali previste per le opere a maggiore impatto.

Per questi cantieri, il legislatore del 2017 ha previsto un iter più snello rispetto a quello delineato per i grandi cantieri sottoposti a VIA o AIA, ma comunque più strutturato rispetto ai cantieri di piccole dimensioni. Il principale elemento di semplificazione è consistito nell’assenza del piano di utilizzo: non è, infatti, richiesto alcun piano formale da trasmettere all’autorità competente per l’autorizzazione preventiva del riutilizzo delle terre. In sostituzione, si fa ricorso a una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, resa ai sensi dell’art. 47 del D.P.R. 445/2000, che assume la funzione sostanziale di attestare la sussistenza dei requisiti indicati dall’articolo 4 del regolamento, necessari per qualificare le terre come sottoprodotti e non come rifiuti.

Questa dichiarazione, una sorta di autocertificazione ambientale, deve essere trasmessa almeno quindici giorni prima dell’inizio delle operazioni di scavo al Comune del luogo di produzione e all’ARPA competente per territorio. Non è invece richiesto, in questo caso, l’invio della dichiarazione all’autorità competente né al Comune del sito di destinazione, contrariamente a quanto previsto per i grandi cantieri soggetti a VIA o AIA. Tale semplificazione è coerente con la struttura del procedimento amministrativo, che in questo caso non si articola in un’autorizzazione preventiva, ma si fonda sull’autodichiarazione del soggetto che effettua lo scavo, denominato “produttore”.

Dunque, la figura del produttore assume in questa categoria di cantieri un ruolo centrale, poiché coincide, di fatto, con colui che effettua materialmente lo scavo e redige la dichiarazione di utilizzo. Tuttavia, questa semplificazione formale ha comportato una problematica interpretativa non trascurabile soprattutto in sede di attribuzione delle responsabilità amministrative e penali: anche nei cantieri privi di VIA o AIA, esistono pur sempre un committente, un progettista e un appaltatore. Come osservato anche in sede dottrinale, sarebbe stato opportuno un allineamento della definizione di “produttore” con quella contenuta nell’art. 183 del D.Lgs. 152/2006 (così come modificato nel 2015), che include anche il soggetto “dal quale dipende l’organizzazione delle attività di produzione” del rifiuto, indipendentemente dalla sua esecuzione materiale.

Per quanto riguarda i contenuti della dichiarazione sostitutiva, questi hanno ricalcato, in larga parte, quelli previsti per i piccoli cantieri: devono essere indicati il volume delle terre, i siti di destinazione e di eventuale deposito intermedio, i tempi previsti per l’utilizzo (che, in via ordinaria, non possono superare l’anno dalla data di produzione), nonché gli estremi delle autorizzazioni eventualmente necessarie. È inoltre ammesso l’aggiornamento della dichiarazione in caso di modifiche significative, e anche in questa categoria di cantieri è prevista la possibilità di richiedere una proroga una tantum, della durata massima di due anni.

Infine, in presenza di concentrazioni superiori alle CSC ma inferiori ai valori di fondo naturale, o nel caso in cui le terre siano prodotte in un sito oggetto di bonifica, è rimasto fermo l’obbligo di applicare la procedura prevista rispettivamente dagli articoli 11 e 12 del regolamento. In tali casi, dunque, nonostante la semplificazione procedurale introdotta per questi cantieri, è comunque stato previsto l’intervento obbligatorio di ARPA per la validazione dei dati ambientali, a conferma della centralità del controllo pubblico nei casi potenzialmente critici sotto il profilo della contaminazione del suolo.

Il deposito temporaneo delle terre e rocce da scavo qualificate come rifiuti (art. 23)

Nel corpus normativo delineato dal D.P.R. 120/2017, il Titolo III è stato dedicato ad una categoria di materiali la cui gestione comporta implicazioni particolarmente delicate: si tratta delle terre e rocce da scavo che, non potendo essere qualificate come sottoprodotti, rientrano nella disciplina dei rifiuti. L’articolo 23, in particolare, ha integrato e precisato quanto già previsto all’articolo 183, comma 1, lettera bb), del D.Lgs. 152/2006, focalizzandosi sulle caratteristiche e condizioni del deposito temporaneo di tali materiali.

Il regolamento, nel rispetto della lettera a-bis) della legge delega (art. 8, D.L. n. 133/2014, convertito in L. n. 164/2014), ha introdotto un’articolazione specifica dei criteri sostanziali e quantitativi relativi al deposito temporaneo dei rifiuti da scavo.
In primo luogo, ha chiarito che i materiali interessati sono quelli identificati dai codici 17.05.04 (terre e rocce non contenenti sostanze pericolose) e 17.05.03* (terre e rocce contenenti sostanze pericolose) dell’Elenco europeo dei rifiuti (EER).

Di poi, ha previsto che, nel caso in cui tali materiali contengano inquinanti organici persistenti, essi debbano essere gestiti in conformità con quanto prescritto dal Regolamento (CE) n. 850/2004, che disciplina in modo stringente lo stoccaggio e il trattamento dei rifiuti contenenti sostanze pericolose, ponendo al centro il principio di precauzione e il contenimento della diffusione di contaminanti ambientali.

Altro elemento di innovazione del D.P.R. 120/2017 è stato l’introduzione di due modalità alternative per la durata del deposito temporaneo, che superano l’impostazione rigida precedentemente in vigore. In particolare, il deposito è consentito:

  1. con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dal quantitativo presente in deposito; oppure
  2. al raggiungimento del limite massimo di 4.000 m³, di cui non più di 800 m³ possono consistere in rifiuti pericolosi.

Tale soglia, come evidenziato anche nel confronto con la disciplina generale dei rifiuti (che prevede, per gli altri rifiuti, limiti molto più contenuti: 30 m³ totali di cui al massimo 10 m³ di pericolosi), ha rappresentato una significativa deroga, giustificata dalla particolare natura dei materiali da scavo e dalla necessità di contemperare esigenze operative e logistiche. Resta in ogni caso fermo che la durata complessiva del deposito non può superare l’anno.

Oltre ai criteri quantitativi e temporali, il regolamento ha imposto anche il rispetto delle norme tecniche di settore, sia in termini generali che con riferimento specifico ai rifiuti pericolosi. In particolare, è espressamente stato previsto che il deposito temporaneo di questi ultimi debba avvenire secondo modalità tali da prevenire la contaminazione ambientale: tra le misure richieste vi sono l’isolamento dal suolo, la protezione dagli agenti atmosferici (vento e acque meteoriche), nonché il convogliamento delle acque di percolazione per evitare la diffusione di contaminanti.

Queste disposizioni hanno egregiamente reso il Regolamento D.P.R. 120/2017 come un impianto normativo che si muove nella direzione di un bilanciamento tra semplificazione operativa (necessaria soprattutto nei cantieri complessi e con volumi rilevanti di scavi) e garanzia di tutela ambientale, elemento imprescindibile nel trattamento di materiali che possono, in taluni casi, risultare contaminati.

Il deposito temporaneo, lo si ricorda, non comporta l’obbligo di autorizzazione formale, ma è assoggettato a rigidi vincoli sostanziali, che devono essere scrupolosamente osservati al fine di evitare che lo stesso si trasformi – per durata o modalità – in una forma di stoccaggio abusivo, con tutte le conseguenze sanzionatorie del caso.

Il riutilizzo nel sito di produzione delle terre e rocce escluse dalla disciplina dei rifiuti (art. 24)

L’articolo 24 del D.P.R. 120/2017 introduce una disciplina autonoma e innovativa rispetto alla normativa previgente, dedicata al riutilizzo in situ delle terre e rocce da scavo escluse dalla disciplina dei rifiuti. Questa fattispecie si distingue nettamente dalla più nota categoria dei “sottoprodotti”, in quanto si fonda sul disposto dell’articolo 185, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 152/2006, che esclude dal campo di applicazione della Parte Quarta del Codice dell’ambiente “il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato”.

Il legislatore ha ritenuto opportuno disciplinare tale fattispecie con norma ad hoc, formalizzando prassi operative già largamente consolidate, ma spesso oggetto di interpretazioni difformi da parte delle autorità competenti. La scelta si colloca nella prospettiva di evitare una sovra-regolazione – e dunque una possibile violazione del principio di gold plating – rispetto a ciò che la normativa unionale non impone.

È tuttavia importante chiarire, sin da subito, che l’ambito di applicazione della norma è circoscritto: riguarda solo il riutilizzo nello stesso sito di produzione, concetto che, come osservato anche nella dottrina tecnica e nei pareri parlamentari, può generare ambiguità interpretative. Vi è, infatti, un dibattito aperto tra due diverse letture:

  • una estensiva, che considera il “sito di produzione” comprensivo dell’intera area di cantiere (soprattutto per opere lineari come strade, ferrovie, condotte);
  • una restrittiva, che lo circoscrive alla singola area dove avviene lo scavo.

Quest’ultima interpretazione risulterebbe eccessivamente penalizzante, soprattutto alla luce del fatto che il materiale escavato viene comunque riutilizzato in loco e senza alcun trattamento, coerentemente con i principi di economia circolare e minimizzazione della produzione di rifiuti.

In base all’art. 24, comma 1, la condizione necessaria per l’esclusione dalla disciplina dei rifiuti è che il materiale escavato:

  • sia certo il riutilizzo;
  • avvenga allo stato naturale, ossia senza trattamento;
  • sia utilizzato nello stesso sito di produzione;
  • e non presenti contaminazione.

Quest’ultimo aspetto viene verificato mediante la caratterizzazione ambientale secondo le procedure descritte nell’allegato 4 al decreto. Qualora si tratti di terre contenenti amianto in forma naturale, il comma 2 dell’articolo in esame prevede un regime rafforzato: esse possono essere riutilizzate esclusivamente nel sito di produzione e sotto il diretto controllo dell’ARPA e dell’ASL territorialmente competenti, previa trasmissione di un apposito progetto di riutilizzo.

Per i cantieri soggetti a VIA, indipendentemente dal volume delle terre, è previsto un iter procedurale più articolato che si sviluppa in due fasi:

  1. Piano preliminare di utilizzo in sito, redatto in fase di Studio di Impatto Ambientale (SIA), contenente:\n – descrizione dell’opera e delle modalità di scavo;\n – inquadramento ambientale del sito;\n – piano di caratterizzazione con indicazione dei punti di indagine, metodologie di campionamento e parametri analitici.
  2. Progetto definitivo, da trasmettere all’autorità competente e all’ARPA prima dell’avvio dei lavori, nel quale devono essere indicati:\n – le volumetrie definitive di scavo;\n – la quantità di terre e rocce riutilizzabili;\n – la collocazione e durata dei depositi temporanei (ove previsti);\n – la destinazione finale delle terre.

È interessante notare come, pur trattandosi di materiale escluso dalla disciplina dei rifiuti, il legislatore abbia imposto stringenti obblighi documentali, inclusi monitoraggi e controlli preventivi, proprio per garantire il rispetto dei principi generali di tutela ambientale e prevenzione dei rischi da inquinamento.

In questo contesto, la dottrina ha sottolineato che l’applicazione dell’articolo 24 – se interpretata in modo restrittivo – può risultare più onerosa della disciplina relativa ai sottoprodotti, determinando un paradosso regolatorio. Di qui l’osservazione secondo cui, in sede applicativa, si dovrebbe preferire un’interpretazione funzionale e finalistica della norma, valorizzando l’assenza di pericolo ambientale e il vantaggio dell’immediato riutilizzo del materiale nel luogo stesso di produzione.

Gestione delle terre e rocce da scavo nei siti oggetto di bonifica (artt. 25-26)

Il Titolo V del D.P.R. 120/2017 affronta una delle tematiche più delicate della disciplina: la gestione delle terre e rocce da scavo prodotte all’interno di siti oggetto di bonifica. Gli articoli 25 e 26 sono dedicati rispettivamente alla regolazione delle attività di scavo e al riutilizzo in situ delle terre all’interno di aree già sottoposte a interventi di risanamento ambientale. Si tratta di una normativa che si innesta in un contesto già fortemente strutturato, ovvero quello previsto dal Titolo V della Parte Quarta del D.Lgs. 152/2006, concernente i procedimenti di bonifica dei siti contaminati.

L’articolo 25, in particolare, disciplina in modo puntuale le modalità operative attraverso cui devono essere condotte le attività di scavo nei siti già caratterizzati. Il punto di partenza è costituito dalla necessità di analizzare un numero significativo di campioni di suolo insaturo, da raccogliere secondo un piano dettagliato che deve essere concordato con ARPA e trasmesso agli enti competenti almeno trenta giorni prima dell’inizio dei lavori. Tale obbligo si fonda sulla consapevolezza che qualsiasi intervento su un sito inquinato può generare interferenze con le opere di messa in sicurezza e con l’intero procedimento di bonifica.

Il piano operativo deve garantire che le operazioni di scavo non pregiudichino né interferiscano con gli interventi previsti nel progetto di bonifica approvato. A tal fine, il regolamento impone che le attività di escavazione siano condotte:

  • nel rispetto delle normative in materia di salute e sicurezza sul lavoro;
  • adottando modalità tecniche cautelative, anche in termini di movimentazione dei materiali e prevenzione della dispersione di contaminanti;
  • secondo i vincoli e le prescrizioni già imposte dall’autorità competente in sede di approvazione del progetto di bonifica.

L’articolo 26, che completa il quadro, si concentra invece sul riutilizzo in situ delle terre e rocce da scavo prodotte nei siti in bonifica. La regola generale è che tale riutilizzo è sempre ammesso a condizione che le concentrazioni delle sostanze presenti nei materiali rispettino le CSC (Concentrazioni Soglia di Contaminazione) con riferimento alla specifica destinazione d’uso del sito.

Quando, tuttavia, le CSC risultano superate, ma vengono comunque rispettati i valori di CSR (Concentrazioni Soglia di Rischio) – come determinati da un’analisi di rischio site specific –, il riutilizzo è subordinato a ulteriori cautele:

  • le CSR devono essere approvate preventivamente dall’autorità competente nell’ambito del procedimento di bonifica, mediante Conferenza di Servizi;
  • il riutilizzo deve avvenire all’interno della medesima area sottoposta ad analisi di rischio, rispettando fedelmente il modello concettuale utilizzato per tale analisi;
  • è vietato l’uso dei materiali nelle sub-aree dove le CSC sono state già rispettate, per evitare la reintroduzione di contaminanti;
  • se, nell’elaborazione delle CSR, non è stato considerato il percorso di lisciviazione in falda, l’utilizzo delle terre è consentito solo nel rispetto delle limitazioni esplicitamente indicate dall’autorità nel provvedimento di approvazione dell’analisi di rischio.

Il legislatore, dunque, prevede un doppio binario normativo: da un lato consente il riutilizzo in via ordinaria nei limiti delle CSC, dall’altro lo subordina a precisi vincoli procedurali qualora si ricorra alle CSR. Questa impostazione risponde alla necessità di conciliare la sostenibilità ambientale con la funzionalità operativa dei cantieri in aree compromesse, offrendo strumenti chiari agli operatori del settore.

Il ruolo di ARPA anche in questa fase è centrale. L’ente è chiamato non solo alla validazione preventiva del piano analitico, ma anche al controllo sull’effettivo rispetto delle condizioni tecniche e ambientali. Il rispetto del principio di precauzione è, in questo contesto, particolarmente importante, poiché lo scavo in siti contaminati può riattivare fenomeni di dispersione o mobilizzazione degli inquinanti, compromettendo i risultati ottenuti o attesi dai procedimenti di bonifica.

In sintesi, il Titolo V del D.P.R. 120/2017 si presenta come una normativa specialistica, strettamente connessa con le disposizioni del Codice dell’ambiente, ma dotata di propria autonomia funzionale. Essa rafforza l’impianto tecnico-normativo già tracciato dall’art. 12 del medesimo decreto e dalle previsioni contenute nel D.Lgs. 152/2006, aggiungendo un livello operativo preciso, esigente e attento alla complessità dei contesti in cui si realizza.

Disposizioni transitorie, finali e clausole di chiusura del D.P.R. 120/2017 (artt. 27-31)

La parte finale del D.P.R. 13 giugno 2017, n. 120, contenuta nel Titolo VI (articoli da 27 a 31), assume un rilievo determinante nel garantire la continuità normativa e l’armonizzazione del nuovo impianto regolatorio con il precedente assetto, disciplinando nel dettaglio la fase transitoria e le condizioni applicative delle norme finali. Questa sezione appare tanto più essenziale quanto più si considera l’eterogeneità dei regimi giuridici precedenti: il D.M. 161/2012, l’art. 186 del D.Lgs. 152/2006 (poi abrogato), le pratiche regionali o settoriali stratificatesi nel tempo.

L’articolo 27 stabilisce un complesso ma chiaro regime intertemporale, distinguendo tre situazioni principali:

  1. I piani di utilizzo ex D.M. 161/2012 e i progetti ex art. 186 D.Lgs. 152/2006 già approvati prima dell’entrata in vigore del D.P.R. 120/2017 (22 agosto 2017) restano disciplinati dalla normativa previgente. Questa continuità si estende anche agli aggiornamenti e modifiche successive, che potranno quindi essere gestiti secondo il vecchio quadro normativo.
  2. I progetti o piani in corso di procedimento alla medesima data continuano ad essere regolati dal vecchio regime. Tuttavia, il comma 2 dell’articolo 27 introduce una facoltà di transizione volontaria al nuovo regime, da esercitarsi entro 180 giorni dall’entrata in vigore del regolamento, presentando il nuovo piano di utilizzo di cui all’articolo 9 o la dichiarazione prevista per i cantieri di piccole dimensioni ex art. 21.
  3. I materiali già riutilizzati ai sensi di piani e progetti precedenti, e che soddisfano oggi la definizione di “terre e rocce da scavo”, si considerano legittimamente allocati e a tutti gli effetti sottoprodotti, evitando così retroattività interpretative o contestazioni giurisprudenziali.

Inoltre, ai sensi dell’art. 27, comma 6, gli allegati tecnici (in totale 10, dalla caratterizzazione ambientale alla dichiarazione di avvenuto utilizzo) costituiscono parte integrante del decreto. Le loro eventuali modifiche potranno avvenire mediante decreto interministeriale, previo parere di ISPRA e ISS, sentita la Conferenza unificata ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. 281/1997.

L’articolo 28, dedicato a controlli e ispezioni, impone agli organi competenti – principalmente ARPA – di verificare la veridicità e la completezza delle dichiarazioni di utilizzo e dei relativi piani, anche attraverso sopralluoghi, prelievi e accertamenti analitici. Tale norma rafforza l’approccio improntato a una responsabilizzazione dei soggetti coinvolti, bilanciata però da un controllo ex post pubblico e tecnico.

L’articolo 29 introduce la clausola di riconoscimento reciproco, in linea con i principi di libera circolazione delle merci e dei materiali all’interno dell’Unione europea. Si stabilisce che i materiali provenienti da altri Stati membri dell’UE che soddisfano i requisiti per la qualifica di sottoprodotto secondo la direttiva 2008/98/CE e la normativa del Paese di origine, sono ammessi in Italia con tale qualifica, a condizione che siano rispettate le finalità ambientali e sanitarie del nostro ordinamento.

Segue l’articolo 30, la clausola di invarianza finanziaria, che ha una funzione prevalentemente contabile e amministrativa: essa stabilisce che dall’attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, in ossequio ai principi di copertura finanziaria previsti dalla legge di contabilità pubblica.

Infine, l’articolo 31 è dedicato al regime delle abrogazioni. Viene espressamente disposto:

  • l’abrogazione del D.M. 10 agosto 2012, n. 161;
  • l’abrogazione del comma 2-bis dell’articolo 184-bis del D.Lgs. 152/2006;
  • l’abrogazione degli articoli 41, comma 2, e 41-bis del D.L. 69/2013, convertito nella legge 98/2013.

Si chiude così il percorso normativo avviato con l’articolo 8 del c.d. “decreto Sblocca Italia” (D.L. 133/2014), dando finalmente compiutezza a un sistema unificato per la gestione delle terre e rocce da scavo, fondato su un equilibrio tra semplificazione, rigore tecnico e conformità al diritto europeo.

Allegati tecnici al D.P.R. 120/2017: la struttura operativa.

Gli allegati al D.P.R. 13 giugno 2017, n. 120 costituiscono, ai sensi dell’art. 27, comma 6, parte integrante del regolamento e ne rappresentano la declinazione pratica ed operativa. Essi sono dieci, ciascuno con funzione normativa vincolante, e possono essere modificati esclusivamente con decreto del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, di concerto con il Ministero delle Infrastrutture, previo parere di ISPRA e dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), nonché previa consultazione della Conferenza Unificata di cui all’art. 8 del D.Lgs. 281/1997.


Allegato 1 – Caratterizzazione ambientale delle terre e rocce da scavo

Questo allegato rappresenta il cuore del sistema di qualificazione ambientale dei materiali da scavo. Esso dettaglia la procedura analitica da seguire per verificare che le terre e rocce non siano contaminate, ovvero che rispettino le Concentrazioni Soglia di Contaminazione (CSC). Viene indicato il numero minimo di campioni da prelevare in funzione dei volumi scavati e si prescrive l’utilizzo di specifici parametri chimici, con metodi standardizzati.


Allegato 2 – Campionamento in fase di progettazione

Qui sono illustrate le modalità con cui effettuare il campionamento preventivo del terreno, prima dell’avvio dei lavori, con particolare attenzione alla distribuzione spaziale e alla profondità dei prelievi. È un passaggio essenziale nei piani di utilizzo e nella verifica preliminare della non contaminazione, in vista della qualifica di sottoprodotto.


Allegato 3 – Normale pratica industriale

Questo allegato definisce il concetto di “normale pratica industriale”, decisivo per la qualificazione del materiale come sottoprodotto ai sensi dell’art. 184-bis del D.Lgs. 152/2006. Rispetto al D.M. 161/2012, il nuovo allegato esclude espressamente la stabilizzazione a calce, precedentemente ammessa, in recepimento delle osservazioni della Commissione europea e al fine di evitare l’apertura di una procedura di infrazione (EU Pilot n. 5554/13/ENVI). La rimozione del trattamento a calce è stata condivisa dal Consiglio di Stato ma non dalla Commissione Ambiente del Senato, che aveva proposto una disciplina intermedia.


Allegato 4 – Caratterizzazione chimico-fisica e qualità ambientali

Questo allegato è centrale nei casi di contaminazione potenziale. Vi si descrive il processo attraverso cui condurre le analisi chimico-fisiche per accertare la compatibilità ambientale delle terre da scavo. Una novità importante è la gestione delle sostanze non tabellate: in questi casi, è il proponente a dover fornire all’ISS e all’ISPRA la documentazione tecnica utile per valutare la tossicità e il rispetto dei limiti previsti dal Regolamento CLP (CE n. 1272/2008). L’ISS deve esprimersi entro 60 giorni, allegando il parere al piano di utilizzo.


Allegato 5 – Piano di utilizzo

Contiene il modello e gli elementi tecnici del piano di utilizzo, documento obbligatorio per i grandi cantieri. Deve riportare, tra l’altro:

  • descrizione dell’opera;
  • dati analitici;
  • modalità di escavazione e deposito;
  • stima dei volumi;
  • sito di destinazione;
  • eventuali trattamenti previsti e modalità di verifica.

È uno strumento cruciale per attestare la qualifica di sottoprodotto e prevenire l’inquadramento come rifiuto.


Allegato 6 – Dichiarazione di utilizzo (art. 21)

Modello semplificato di dichiarazione sostitutiva, utilizzabile nei cantieri di piccole dimensioni (≤ 6.000 m³) o in quelli grandi non sottoposti a VIA o AIA. Tale dichiarazione è trasmessa all’ARPA e al Comune ed equivale, nella sostanza, a un piano semplificato.


Allegato 7 – Documento di trasporto

Definisce le informazioni obbligatorie che devono accompagnare il trasporto delle terre e rocce da scavo, qualificate come sottoprodotti. Il modulo deve essere in triplice copia (quattro se proponente ed esecutore sono soggetti diversi).


Allegato 8 – Dichiarazione di avvenuto utilizzo (DAU)

Documento da trasmettere all’autorità competente entro il termine di validità del piano o della dichiarazione. È uno strumento che attesta l’effettivo riutilizzo delle terre come sottoprodotto. La mancata trasmissione nei termini, anche se le terre sono state effettivamente impiegate correttamente, comporta la loro qualificazione come rifiuto, in una logica che, come già osservato in sede dottrinale, può apparire sproporzionata e in contrasto col principio di prevenzione sancito dal diritto europeo.


Allegato 9 – Campionamento in corso d’opera e per i controlli

Disciplina le modalità di verifica durante i lavori e in fase di controllo o ispezione da parte degli enti. Include linee guida per garantire tracciabilità, ripetibilità analitica e coerenza tra campioni preliminari e quelli successivi.


Allegato 10 – Metodologia per la quantificazione dei materiali antropici

Indispensabile per determinare, ai sensi dell’art. 4, comma 3, se una miscela contenente materiali antropici possa ancora essere considerata sottoprodotto. Fissa la soglia del 20% in peso e specifica la procedura per la valutazione visiva e granulometrica, nonché i metodi di test di cessione per valutare l’idoneità ambientale complessiva.


Con l’analisi degli allegati tecnici, si completa il quadro operativo e normativo del D.P.R. 120/2017. Questa parte rappresenta l’architrave metodologica dell’intero decreto, permettendo alle disposizioni sostanziali di trovare una concreta attuazione attraverso modelli, standard tecnici e responsabilità tracciabili.

Conclusioni: una disciplina unificata tra rigore ambientale e semplificazione procedurale

Il D.P.R. 13 giugno 2017, n. 120 è un provvedimento normativo di elevata complessità, ma al tempo stesso di straordinaria importanza per la gestione sostenibile delle terre e rocce da scavo. Esso ha avuto il merito indiscusso di superare la frammentarietà e l’instabilità che hanno caratterizzato per anni la regolazione della materia, sostituendo una pluralità di fonti eterogenee (dal D.M. 161/2012 all’art. 186 del D.Lgs. 152/2006, oggi abrogato) con un unico corpus regolatorio organico, completo e coordinato.

Tra i principali elementi di pregio del decreto si segnala, anzitutto, l’introduzione di un sistema proporzionale: i cantieri sono differenziati non solo in base alla loro dimensione (con la soglia di 6.000 m³), ma anche in funzione della loro sottoposizione o meno a procedimenti di Valutazione di Impatto Ambientale o Autorizzazione Integrata Ambientale, secondo una logica di graduazione degli oneri documentali e autorizzativi che rende la disciplina più equa e funzionale.

Di particolare rilievo è anche la piena attuazione del principio di prevenzione nella produzione dei rifiuti, che si manifesta nella possibilità – seppur condizionata – di qualificare le terre e rocce come sottoprodotti, evitando in tal modo il loro trattamento come rifiuti e il conseguente aggravio gestionale ed economico. In tal senso, il regolamento si pone in linea con gli obiettivi europei in materia di economia circolare e uso efficiente delle risorse.

Va tuttavia rilevato che l’impianto, per quanto volto alla semplificazione, non è privo di rigidità formali. In più punti – si pensi, ad esempio, alla perdita automatica della qualifica di sottoprodotto per il mancato invio della dichiarazione di avvenuto utilizzo (DAU), o alla trasformazione in rifiuto in caso di variazione non comunicata dei siti di destinazione – è stata riscontrata un’impostazione eccessivamente penalizzante.

Un altro nodo da sciogliere resta quello della definizione e delimitazione della“normale pratica industriale”, requisito centrale per la qualifica come sottoprodotto che è stato lasciato a una valutazione tecnico-discrezionale, non sempre uniforme né sufficientemente predeterminata. L’eliminazione del trattamento a calce, ad es., ha privato gli operatori di uno strumento largamente utilizzato, senza che siano stati proposti strumenti alternativi condivisi.

Infine l’ultima critica: il D.P.R. 120/2017, pur essendo un regolamento tecnico, ha affidato, troppo spesso, un ruolo cruciale alla contrattualistica privata tra committenti, proponenti ed esecutori. La corretta assegnazione degli obblighi di redazione, trasmissione e aggiornamento dei piani di utilizzo, come pure delle responsabilità in caso di inosservanza, impone una puntuale strutturazione dei rapporti civilistici, tanto nelle gare pubbliche quanto nei lavori privati.

Col D.P.R. 120/2017 l’ordinamento italiano si è finalmente dotato di una disciplina unitaria, moderna ed efficiente in un settore strategico per le infrastrutture, l’ambiente e l’economia. La sua corretta attuazione richiede, tuttavia, non solo la competenza tecnica degli operatori, ma anche coerenza interpretativa da parte delle autorità competenti, prudenza giurisprudenziale e – soprattutto – un approccio collaborativo e non burocratico da parte degli enti di controllo, affinché lo spirito del decreto non venga vanificato dalla rigidità applicativa ma trovi realizzazione in un uso sostenibile, trasparente e razionale delle risorse escavate.

In considerazione del carattere specialistico della disciplina, della sua evoluzione normativa costante, del ruolo crescente delle autorità di controllo ambientale, nonché dell’ondivaga interpretazione giurisprudenziale in sede penale e amministrativa, si raccomanda agli operatori del settore – pubblici e privati – di non affrontare autonomamente la gestione delle terre e rocce da scavo.

📌 Per evitare incertezze applicative, ritardi procedimentali o sanzioni, è fortemente consigliata la consulenza preventiva e continuativa di esperti del settore.

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