TERRE E ROCCE DA SCAVO – Rifiuti – La disciplina derogatoria sulle terre e rocce da scavo non è applicabile a porzioni di territorio che non siano contigue ed “in situ”.

Per l’applicazione della disciplina derogatoria sulle terre e rocce da scavo di cui all’art. 185, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 152/2006, la nozione di «sito», come «area o porzione di territorio, geograficamente definita» e «determinata», oppure «perimetrata», non si presta a ricomprendere distinte e autonome porzioni di territorio che, benché ricadenti nel medesimo comune e non distanti tra loro, non siano contigue e abbiano addirittura diversa destinazione.

Fonte: Foro it. 2023, 10, II, 539

Cassazione penale sez. III, 16/03/2023, n.26805

Con sentenza del 16 dicembre 2021, la Corte di appello di Bologna, confermava la responsabilità per l’illecito amministrativo previsto dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 25 undecies, comma 2, lett. b), dipendente dal reato di cui al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 256, comma 1, lett. a), contestato al presidente del consiglio di amministrazione di un Consorzio tra società operante nel settore dell’edilizia pubblica e privata e dell’ambiente. La sentenza impugnata aveva confermato la condanna dell’ente al pagamento di una sanzione pecuniaria il cui ammontare era stato stabilito tenendo conto della riduzione di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, comma 1, lett. a).

Avverso detta sentenza il Consorzio proponeva ricorso per cassazione deducendo, con il primo motivo, l’inosservanza del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, comma 1, lett. c) ed il vizio di motivazione nella parte in cui escludeva che l’utilizzo di terre e rocce da scavo, contestato come illecito, fosse avvenuto nell’ambito dello stesso sito e di conseguenza riteneva il fatto penalmente rilevante.

In particolare, il Consorzio negava la sussistenza del reato presupposto per essere stata data alla nozione di “sito”, prevista da tale disposizione – che esclude la natura di rifiuto con riguardo alle terre e rocce da scavo da riutilizzarsi, appunto, nello stesso sito – un significato ricostruito in base a disposizioni normative abrogate e comunque errato. Secondo la ricorrente, diversamente da quanto sostenuto dalla Corte territoriale, non poteva essere ritenuto che il “sito” individui uno spazio perimetrato, delineato e di dimensioni tali da implicare le sole attività di movimentazione e non anche quelle di trasporto.

Con il secondo motivo di ricorso il Consorzio lamentava il vizio di motivazione e l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, perché era stato ritenuto il presupposto dell’illecito amministrativo dipendente da reato, perché commesso nell’interesse dell’ente o a suo vantaggio, individuati nel risparmio di spesa e nell’accelerazione dell’attività d’impresa.

In particolare, da un lato, si lamentava la contraddittorietà dell’affermazione rispetto all’esclusione del medesimo presupposto con riguardo alle materie prime secondarie provenienti da una Srl., d’altro lato, l’omessa disamina della consulenza tecnica della difesa nella parte in cui aveva evidenziato l’insussistenza di un apprezzabile vantaggio in capo all’ente rispetto al riutilizzo del materiale in questione quand’anche si fosse seguito il procedimento di gestione del rifiuto ritenuto corretto dalla sentenza impugnata. Il consulente, infatti, aveva evidenziato come il materiale si sarebbe potuto avviare a riutilizzo con una semplice autocertificazione, previe analisi con un costo assai modesto, e come, in alternativa, il Consorzio avrebbe potuto prelevare la materia prima secondaria necessaria senza sostenere alcun costo – diverso da quello, irrisorio, del trasporto – presso la sua società controllata.

Con il terzo motivo di ricorso il Consorzio si doleva della violazione di legge e del vizio di motivazione sul rilievo che, pur essendo stata esclusa la continuazione ritenuta in primo grado, la Corte territoriale aveva mantenuto la sanzione pari a quella inflitta dal primo giudice, senza procedere alla sua riduzione.

La Corte considerava infondato il primo motivo.

Diversamente da quanto sostenuto dal Consorzio in ricorso, ove si doleva del fatto che il giudice di primo grado avesse erroneamente applicato il D.M. 10 agosto 2012, n. 161 abrogato dal D.P.R. n. 120 del 2017, art. 31, comma 1, il Collegio osservava che la sentenza impugnata non aveva applicato tale abrogata normativa, ma aveva correttamente interpretato la nozione di “sito” prevista dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, comma 1, lett. c), dandone una lettura certamente conforme al sistema.

Questa disposizione esclude dall’ambito di applicazione della disciplina sulla gestione dei rifiuti prevista dalla Parte quarta del D.Lgs. n. 152 del 2006 “il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato”.

Indefettibile presupposto dell’applicabilità di tale previsione, dunque, è quello relativo al fatto che le “terre e rocce da scavo” debbano riutilizzarsi a fini costruttivi – e che poi effettivamente lo siano – nel medesimo sito nel quale sono state estratte.

Secondo il Collegio la sentenza impugnata dava atto che tale presupposto non poteva dirsi verificato poiché le terre e rocce da scavo erano state estratte nel cantiere ove la società stava svolgendo opere assunte in appalto dal Comune (opere per arredi urbani), caricate e trasportate con camion e quindi utilizzate, in un diverso sito comunale ubicato a circa 500 m. di distanza ove la società era impegnata a realizzare lavori di livellamento di terreno con riporto di materiale vegetale.

Così la Corte: “nel caso in esame deve escludersi che lo spostamento della terra e della roccia da scavo sia consistita in una mera movimentazione di terreno all’interno della “medesima area”: si è trattato, al contrario, di un vero e proprio trasporto di materiale da una zona ad un’altra (se pure poste a distanza di solo 500 mt) nelle quali erano in corso opere diverse”.

La Cassazione considerava la decisione del giudice di prime cure non censurabile in diritto e tutt’altro che manifestamente illogica. Ad avviso del Collegio, in particolare, essa era conforme alla lettera della legge ed alla sua ratio quali delineabili alla luce dell’interpretazione sistematica.

Quanto al primo profilo, la nozione di “sito” come “area o porzione di territorio, geograficamente definita” e “determinata”, oppure “perimetrata”, è tipica del diritto penale dell’ambiente (v., nel primo senso, con riguardo cioè all’ulteriore specificazione della “determinazione”, l’art. 240, lett. a, D.Lgs. n. 152 del 2006; nel secondo senso, con particolare riguardo alla “perimetrazione”, il D.P.R. n. 120 del 2017, art. 2  lett. i).

La nozione di “sito”, dunque, non si presta a ricomprendere distinte ed autonome porzioni di territorio che, benché ricadenti nel medesimo comune e non distanti tra loro, non siano contigue e abbiano addirittura diversa destinazione: in questi casi, infatti, ci si trova di fronte a due distinte aree e non ad una sola area definita e determinata, in modo tale da poter essere circoscritta in un unico perimetro. Né può indurre in contrario avviso il fatto che i lavori in due diversi siti siano in qualche modo sin dall’origine “collegati”.

Di poi, la “certezza del riutilizzo del materiale” è sì un requisito essenziale della disciplina derogatoria in parola – come, peraltro, di quella prevista dal D.P.R. n. 120 del 2017- ma non è condizione sufficiente, richiedendosi anche che il materiale non fuoriesca dal medesimo sito inteso come unica area suscettibile di perimetrazione.

La Corte evidenziava che proprio con riguardo a questo secondo profilo (sito come unica area suscettibile di perimetrazione) si rinviene la ratio che sorregge la disposizione in esame, dovendosi ritenere che l’esclusione dell’applicabilità della generale regolamentazione sulla gestione dei rifiuti da essa prevista – da ritenersi, peraltro, di stretta interpretazione – trovi giustificazione nel fatto che ciò che oggettivamente costituirebbe un rifiuto speciale non è tale, e non deve essere assoggettato alla relativa disciplina, quando sia destinato alla temporanea conservazione nello stesso luogo di produzione per essere ivi riutilizzato come sottoprodotto senza necessità di trattamento o di attività di gestione.

Posto che il trasporto è già una tipica attività di gestione del rifiuto che necessita di autorizzazione e di controllo, già il solo fatto che il materiale debba essere spostato da un luogo all’altro con utilizzo di automezzi (sia pure per breve distanza) rivela come ci si trovi fuori dall’eccezionale ipotesi derogatoria prevista dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, comma 1, lett. c).

Più in particolare, alla luce delle definizioni contenute nel D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183, l’attività che aveva svolto il Consorzio ricorrente era riconducibile a plurime condotte integranti tipiche forme di gestione del rifiuto previste dalla legge e quindi sottoposte a controllo (la raccolta, il trasporto, il recupero), che eccezionalmente vengono escluse dall’applicazione del relativo regime normativo solo quando i materiali costituenti oggettivamente “rifiuto” siano destinati al riutilizzo nel medesimo sito nel quale sono stati prodotti ovvero quando siano altrove utilizzati in conformità alla disciplina di cui al citato D.P.R. n. 120 del 2017 (disciplina che conosce come perno centrale il P.U.T. -piano di utilizzo terre ex art. 9, DPR n. 120 del 2017).

Se, invece, come era successo nel caso di specie, il riutilizzo si faccia in un sito diverso da quello di produzione [sulle definizioni di “sito di produzione” delle terre e rocce da scavo e “sito di destinazione” per il loro successivo riutilizzo vedi, rispettivamente, D.P.R. n. 120 del 2017, art. 2, lett. l) e m)] la possibilità di trattare le rocce e terre da scavo come sottoprodotto, e non come rifiuto, soggiace al rispetto della richiamata disciplina regolamentare delegata, che in tal caso prevede, tra l’altro, la redazione ed il rispetto del piano di utilizzo di cui al D.P.R. n. 120 del 2017, art. 9 o, nel caso di cantieri di piccole dimensioni, della dichiarazione di cui al successivo art. 21.

Anche il secondo motivo, sulla carenza del vantaggio derivato dall’attività illecita, era infondato.

Secondo la giurisprudenza della Corte (anche se in tema di responsabilità degli enti derivante da reati di lesioni personali colpose in violazione della disciplina antinfortunistica), il criterio di imputazione oggettiva del vantaggio di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 è integrato anche da un esiguo, ma oggettivamente apprezzabile, risparmio di spesa, collegato a condotte illecite anche non sistematiche (Sez. 4, n. 33976 del 30/06/2022, Cantina Sociale Bartolomeo da Breganze, Rv. 283556), come pure può consistere soltanto nella riduzione dei tempi di lavorazione (Sez. 4, n. 16598 del 24/01/2019, Tecchio, Rv. 275570).

In sostanza, il vantaggio che costituisce presupposto della responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato dev’essere apprezzabile, ma può anche essere minimo, come si ricava – a contrario – dal fatto che, ove ciò accada, la sanzione applicabile dev’essere diminuita ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, comma 1, lett. a), come in effetti era avvenuto nel caso di specie. Del resto, la responsabilità dell’ente non presuppone che la condotta illecita consista nella sistematica commissione di reati, ben potendo sussistere anche in caso di occasionale violazione della legge penale (cfr., in motivazione, la citata sent. 33976/2022).

Nel caso di specie, la sentenza impugnata aveva ritenuto sussistente il vantaggio e l’interesse dell’ente connessi alla condotta illecita ritenuta, sia con riguardo all’indubbio contenimento dei tempi che la soluzione prescelta aveva assicurato rispetto a ciò che si sarebbe altrimenti dovuto fare, sia con riguardo ai maggiori costi che si sarebbero dovuti sopportare, e ciò tanto con riguardo alla gestione come rifiuto prodotto nel primo cantiere, quanto in relazione all’acquisizione di altrettanto materiale da utilizzare per i lavori di livellamento nel secondo e distinto cantiere.

Quanto al terzo motivo la Corte lo ha ritenuto inammissibile per difetto d’interesse e manifesta infondatezza in quanto la Corte territoriale aveva dato atto dell’errore materiale commesso nel dispositivo di primo grado laddove era stato affermato il riconoscimento del vincolo della continuazione, essendo peraltro evidente che lo stesso non poteva certo ritenersi con riguardo al reato presupposto (capo A) e all’illecito amministrativo da esso dipendente (capo B). Nel rettificare anche formalmente quell’errore, la sentenza impugnata non doveva dunque trarne conseguenze di sorta in termini di riduzione della sanzione applicata, non essendo stato determinato alcun aumento, a titolo di continuazione.

Il ricorso, dunque, veniva rigettato con condanna del Consorzio ricorrente al pagamento delle spese processuali.