Secondo il principio “chi inquina paga”, l’Amministrazione non può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non abbia causato o concorso a causare l’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui all’art. 240, co. 1, lett. m) e p), D.lgs. n. 152/2006.
Il proprietario incolpevole, pertanto, che non sia stato negligente nell’attivarsi con le segnalazioni e le denunce imposte dalla legge, è tenuto solo ad adottare le misure di prevenzione e le misure di messa in sicurezza d’urgenza, mentre gli interventi di riparazione, messa in sicurezza definitiva, bonifica e ripristino gravano sul responsabile della contaminazione.
Nel caso in cui il proprietario, ancorché non responsabile, abbia attivato volontariamente gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale, la fonte dell’obbligazione va rinvenuta nell’istituto della gestione di affari non rappresentativa (art. 2028 ss. cod. civ.). Il gestore è tenuto a continuare la gestione ed a completarla finché l’interessato non sia in grado di provvedervi autonomamente. Ravvisandosi nella negotiorum gestio i tratti distintivi dell’obbligazione – che nasce per effetto della libera determinazione del gerente – senza obbligo primario di prestazione, discende l’applicazione dell’art. 1218 c.c. nei casi di responsabilità per c.d. mala gestio. Pertanto, il proprietario incolpevole, seppur non obbligato, che ha assunto spontaneamente l’impegno di eseguire un complessivo intervento di bonifica, deve portare diligentemente a compimento l’attività utilmente iniziata, o comunque proseguirla finché l’Amministrazione non sia in grado di far subentrare l’autore dell’inquinamento.
Insegnamento: “mentre la “prevenzione” può entrare in gioco solo a fronte di “rischi certi”, ossia in presenza “di rischi scientificamente accertati e dimostrabili, ovverosia in presenza di rischi noti, misurabili e controllabili”, la “precauzione”, al contrario, trova il proprio campo di applicazione allorché un determinato rischio risulti ancora caratterizzato da margini più o meno ampi di incertezza scientifica circa le sue cause o i suoi effetti”.
Consiglio di Stato sez. IV – 02/02/2024, n. 1110 (si fa richiamo a Cons. St., Sez. IV, n. 3426/2022; Cons. St., Sez. IV, n.567/2020; CdgUE, Sez. III, 4 marzo 2015, C 534-13; Cons. Stato, Ad. Plen., n. 25/2013).
Una Società, nel ricorso di primo grado, avente ad oggetto il procedimento di bonifica relativo ad un sito produttivo, deduceva di non essere più proprietaria del sito in questione dall’anno 2005 avendolo venduto ad altra società, che, a sua volta, successivamente, l’aveva trasferito ad altra società e, quindi, da questa all’attuale proprietaria.
La Società ricorrente, inoltre, riferiva che nel periodo in cui era proprietaria, aveva avviato il procedimento di bonifica del sito essendo quest’ultimo inquinato da solventi clorurati, non riconducibili al proprio ciclo produttivo; a tal fine, nell’anno 1999, aveva comunicato, in qualità di proprietaria non responsabile, agli enti di controllo, la presenza di contaminazione nelle acque sotterranee e, successivamente, a seguito dell’inserimento dello stabilimento nel Sito di Interesse Nazionale (SIN), nel giugno 2002, aveva inviato al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM) ed agli altri Enti di controllo un documento tecnico di sintesi di tutte le indagini svolte sui terreni e sulle acque sotterranee. All’esito dell’indetta conferenza di servizi, la Società ricorrente aveva presentato il piano di caratterizzazione ed aveva messo in atto misure di Messa in Sicurezza di Emergenza (MISE) a partire dal mese di ottobre 2003, consistenti nel pompaggio dei piezometri di valle. Inoltre, pur avendo venduto il sito nell’anno 2005, la Società ricorrente aveva completato le indagini sul suolo ed aveva concluso il procedimento relativo all’accertamento dello stato di contaminazione del sito, presentando agli Enti competenti il documento di analisi di rischio nonché le risultanze degli accertamenti successivamente svolti, che non avevano mostrato superamenti delle concentrazioni limite fissate dalla legge (sia con rifermento al D.M. 471/99 sia con riferimento al d.lgs. 152/06) per uso commerciale/industriale e, nello specifico, per i composti alifatici clorurati rinvenuti nelle acque sotterranee.
Una volta entrato in vigore il D.M. 11/01/2013 (Approvazione dell’elenco dei siti che non soddisfano i requisiti di cui ai commi 2 e 2-bis dell’art. 252 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e che non sono più ricompresi tra i siti di bonifica di interesse nazionale, GU Serie Generale n. 60 del 12-03-2013), il sito inquinato (SIN) era stato declassato a sito di interesse regionale (SIR), cosicché la titolarità del procedimento era stata trasferita alla Regione Campania.
Nel 2018 la Società aveva presentato agli Enti competenti un nuovo documento di analisi di rischio conforme al vigente quadro normativo nel frattempo intervenuto, rappresentando altresì che, in quanto soggetto non responsabile della contaminazione riscontrata, non avrebbe potuto essere individuato come l’obbligato ad eseguire gli interventi di bonifica e/o di messa in sicurezza operativa.
Successivamente alla trasmissione del documento di analisi di rischio, la Regione, nel 2019, aveva convocato la Conferenza di Servizi per l’approvazione dell’analisi di rischio; all’esito dell’indetta conferenza di servizi, la Regione Campania aveva approvato l’analisi di rischio ed il successivo aggiornamento, imponendo le seguenti prescrizioni: (i) per la MISE attiva di porre in emungimento il pozzo a valle e trattare mediante il TAF (Trattamento Acque Falda) le acque emunte e (ii) di “presentare idoneo POB (Progetto Operativo Bonifica) per la matrice acque sotterranee, ponendo come obiettivo il rispetto delle concentrazioni di contaminanti che entrano da monte idrogeologico.
Avverso il predetto provvedimento la Società era insorta, con il ricorso di primo grado, dinanzi al T.a.r. Campania, deducendo le seguenti censure.
In primo luogo, deduceva la violazione e/o erronea applicazione degli articoli 242, 245 e 250 del d.lgs. 152/2006 nonché l’eccesso di potere per carenza dei presupposti e difetto di motivazione in cui sarebbe incorsa la resistente amministrazione poiché, pur non essendo stata accertata alcuna responsabilità in capo alla società ricorrente in ordine all’inquinamento del sito in oggetto, era stata imposta a quest’ultima l’esecuzione degli interventi di bonifica delle acque sotterranee.
Ad avviso della Società ricorrente, il provvedimento che le imponeva il TAF e il POB era stato adottato in violazione del principio, di derivazione comunitaria ma ampiamente recepito dalla giurisprudenza nazionale, secondo cui è precluso all’amministrazione imporre lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento dei siti inquinati ai privati che non hanno alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato e che vengano individuati solo in quanto proprietari del bene.
La Società aveva avviato il procedimento di bonifica spontaneamente in quanto al tempo proprietaria del sito; da tale volontaria iniziativa non avrebbe potuto farsi discendere un obbligo di procedere alle attività di bonifica non essendo più, fra l’altro, proprietaria del sito e non avendo quindi un interesse a portare avanti tali attività.
In secondo luogo, secondo la ricorrente, l’illegittimità del provvedimento regionale emergeva anche sotto l’ulteriore profilo della violazione e/o erronea applicazione dell’art. 251 d.lgs. 152/2006 e s.m.i., poiché, nel verbale della Conferenza di Servizi, il Responsabile del Procedimento della Regione Campania aveva motivato la richiesta di intimare alla ricorrente di presentare “idoneo POB per la matrice acque sotterranee” sul presupposto che la stessa fosse stata individuata come “Soggetto Obbligato” nel vigente PRB della Regione Campania.
Tuttavia, a giudizio della ricorrente, tale assunto appariva del tutto erroneo poiché il PRB, a norma dell’art. 251, comma 1, lettera a), conteneva esclusivamente l’elenco dei siti sottoposti ad intervento di bonifica e ripristino ambientale nonché degli interventi realizzati nei siti medesimi, ma non anche l’individuazione del soggetto obbligato.
Infine, sempre ad avviso della Società, violando palesemente gli artt. 242 e 243 del d.lgs. 152/2006 e con evidente difetto d’istruttoria, la Regione resistente aveva prescritto alla ricorrente anche di porre in essere emungimento di un pozzo per garantire in tal modo un più efficace barrieramento nonché, il trattamento mediante TAF delle acque emunte al fine di garantire la conformità all’art. 243 comma 6 del D.Lgs. 152/06.
Tuttavia, secondo la ricorrente, tali prescrizioni non solo non potevano essere intimate alla Società non avendo più essa la proprietà del suolo, ma si fondavano anche su presupposti errati ed in contrasto con i dati tecnici preventivamente rilevati. Difatti, il monitoraggio mensilmente svolto, da un lato, aveva rilevato la presenza di contaminazioni originate in aree esterne, poste a monte e lateralmente al sito, ma anche che le acque sotterranee estratte dalla barriera idraulica erano risultate conformi ai limiti di scarico in fognatura, cosicché non dovevano essere sottoposte all’indicato trattamento in quanto quest’ultimo era prescritto esclusivamente per le acque qualificate come rifiuti.
Il T.a.r. Campania respingeva il ricorso.
Contro questa sentenza Società proponeva appello.
La Sezione IV riteneva l’appello non fondato.
Con il primo mezzo di gravame la parte appellante assumeva l’erroneità della sentenza impugnata per violazione e/o erronea applicazione degli articoli 242, 245 e 250 del d.lgs. 152/2006 poiché, pur non essendo stata accertata alcuna sua responsabilità in ordine all’inquinamento del sito in oggetto, confermava la correttezza dell’operato dell’amministrazione nell’imposizione della esecuzione degli interventi di bonifica delle acque sotterranee.
In tale prospettiva, secondo la Società, i provvedimenti contestati in primo grado sarebbero stati adottati in violazione del principio, di derivazione comunitaria, secondo cui è precluso all’amministrazione imporre lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento dei siti inquinati ai privati che non hanno alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato e che vengano individuati solo in quanto proprietari del bene.
In secondo luogo, secondo l’appellante, l’illegittimità dei provvedimenti contestati in primo grado emergeva anche sotto l’ulteriore profilo della violazione e/o erronea applicazione dell’art. 251, d.lgs. 152/2006 e s.m.i., poiché, nel verbale della Conferenza di Servizi, il Responsabile del Procedimento della Regione Campania aveva motivato la richiesta di intimare alla Società di presentare “idoneo POB per la matrice acque sotterranee” sul falso presupposto che la stessa fosse stata individuata come “Soggetto Obbligato” nel vigente PRB della Regione Campania.
Infine, violando palesemente gli artt. 242 e 243 del d.lgs. 152/2006 e con evidente difetto d’istruttoria, la resistente amministrazione aveva anche intimato le operazioni di bonifica.
Il motivo veniva ritenuto non fondato.
Osservava il Collegio che, in linea di principio, era corretto l’assunto della parte appellante secondo il quale, alla stregua del principio “chi inquina paga”, l’Amministrazione non può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui all’art. 240, comma 1, lett. m) e p), d.lgs. n. 152 del 2006, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dall’art. 253, stesso d.lgs. n. 152 del 2006, in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare.
Le disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV, del d.lgs. n. 152 del 2006 (artt. da 239 a 253) operano, infatti, una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell’inquinamento e quella del proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione” (Cons. Stato, Ad. Plen., 13 novembre 2013, n. 25).
A tal riguardo, il Collegio sottolineava che l’impossibilità di imporre le opere di bonifica al proprietario di un terreno inquinato non responsabile del relativo inquinamento è stata affermata a partire dalla nota sentenza Corte di giustizia UE, sez. III, 4 marzo 2015 C 534-13 (su ordinanza di rinvio pregiudiziale dell’Adunanza plenaria 13 novembre 2013 n. 25). La sentenza della Corte di giustizia, in particolare, ha chiarito che “La direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione”.
La successiva giurisprudenza nazionale, nel tentativo di ulteriormente sviluppare l’assunto della Corte di giustizia, è giunta ad affermare l’impossibilità di imporre le misure di bonifica al proprietario non responsabile della contaminazione, traendo principale argomento dalla natura sanzionatoria di questa misura.
In tale ottica ricostruttiva, secondo il Consiglio, andava tuttavia osservato che analogo ragionamento non poteva valere anche con riferimento alle misure di messa in sicurezza di emergenza, le quali, così come le misure di prevenzione, non hanno analoga natura sanzionatoria, ma preventiva e cautelare, trovando fondamento nel principio di precauzione e nel correlato principio dell’azione preventiva, e, in quanto tali, possono gravare sul proprietario (o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all’ambiente) solo perché egli è tale senza necessità di accertarne il dolo o la colpa (in questi termini, la costante giurisprudenza, per tutte Cons. Stato, sez. IV, 26 febbraio 2021, n. 1658; sez. VI, 3 gennaio 2019, n. 81; sez. V, 8 marzo 2017, n. 1089; 14 aprile 2016, n. 1509).
In base a tale consolidato orientamento, il proprietario del terreno sul quale sono depositate sostanze inquinanti, che non sia responsabile dell’inquinamento (c.d. proprietario incolpevole) e che non sia stato negligente nell’attivarsi con le segnalazioni e le denunce imposte dalla legge, è, pertanto, tenuto solo ad adottare le misure di prevenzione, mentre gli interventi di riparazione, messa in sicurezza definitiva, bonifica e ripristino gravano sul responsabile della contaminazione, ossia su colui al quale – per una sua condotta commissiva od omissiva – sia imputabile l’inquinamento. Ne viene che la P.A. competente, qualora il responsabile non sia individuabile o non provveda agli adempimenti dovuti, può adottare d’ufficio gli accorgimenti necessari e, se del caso, recuperare le spese sostenute attraverso un’azione di rivalsa verso il proprietario, il quale risponde nei soli limiti del valore di mercato del sito dopo l’esecuzione degli interventi medesimi (cfr., tra le altre, Consiglio di Stato, Sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 502, e id., Sez. V, 10 ottobre 2018, n. 5604).
Ne discende che il proprietario non responsabile dell’inquinamento – nell’accezione prima chiarita – è tenuto, ai sensi dell’art. 245, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006 ad adottare le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 152 del 2006 (ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”) e le misure di messa in sicurezza d’emergenza, non anche la messa in sicurezza definitiva né gli interventi di bonifica e di ripristino ambientale.
Tali consolidati principi non possono, nondimeno, trovare applicazione nel caso in cui, così come avvenuto nella fattispecie in esame, il proprietario, ancorché non responsabile, aveva attivato volontariamente gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale.
In tale caso, infatti, la fonte dell’obbligazione del proprietario incolpevole va rinvenuta, come correttamente affermato dal primo giudice, nell’istituto della gestione di affari non rappresentativa. Secondo l’art. 2028 c.c. colui che, scientemente e senza esservi tenuto, assume la gestione di un affare altrui ha l’obbligo di proseguirla fino a quando l’interessato possa provvedervi da sé stesso.
I presupposti necessari perché si configuri una gestione di affari altrui sono tradizionalmente individuati da un costante orientamento giurisprudenziale: a) nella c.d. absentia domini, dedotta dall’art. 2028 c.c. allorché fa riferimento ad un dominus che non è in grado di provvedere ai suoi interessi; b) nell’altruità dell’affare, dato l’esplicito riferimento normativo alla gestione di un affare altrui; c) nella spontaneità dell’intervento del gestore che, infatti, ai sensi dell’art. 2028 c.c., deve agire “senza essere obbligato”; d) nella consapevolezza dell’alienità dell’affare, desumibile dall’avverbio “scientemente”.
Particolarmente discusso è, poi, il c.d. requisito dell’utiliter coeptum che, data la formulazione dell’art. 2031 c.c., è considerato da una parte della dottrina condicio iuris di efficacia di una fattispecie già strutturalmente perfetta e, da altra parte, ritenuto presupposto dei soli effetti a carico del dominus.
Il requisito della c.d. absentia domini – secondo l’indirizzo prevalente- deve essere inteso in senso ampio, in modo da comprendervi il caso in cui l’interessato, pur presente fisicamente nei luoghi ove la gestione è eseguita, non sia comunque in grado di presidiare all’amministrazione dei propri interessi esistenziali.
A tal riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che: “Nella ricostruzione dell’istituto della negotiorum gestio, disciplinato dall’art. 2028 c.c. segg., la nozione che la consolidata giurisprudenza di questa Corte ha accolto del requisito della absentia domini, secondo una direttrice condivisa dalla prevalente dottrina, è quella per cui, a tal fine, non rileva che vi sia una condizione di assoluto impedimento dell’interessato alla gestione dei propri affari ovvero che sussista una impossibilità materiale rispetto alla cura di questi, ritenendosi soddisfatto l’anzidetto requisito là dove il dominus non abbia manifestato, espressamente o tacitamente, il divieto a che altri si ingerisca nella cura dei propri affari” (Cass., SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11135 e di Cass., SS.UU., 4 luglio 2012, n. 11136 ;Cass. 3 marzo 1954, n. 607; Cass. 13 maggio 1964, n. 550; Cass. 23 maggio 1984, n. 3143; Cass. 25 maggio 2007, n. 12280; Cass. 9 aprile 2008, n. 9269; Cass. 7 giugno 2011, n. 12304).
Quanto agli effetti della gestione, un’impostazione largamente ricevuta distingue la fattispecie in cui il gestore ha agito nomine proprio da quella in cui spende il nome dell’interessato (art. 2031, comma 1, c.c.). Nel primo caso (c.d. gestione rappresentativa fondata sulla legge e condizionata dal presupposto dell’utiliter coeptum), gli effetti della gestione sono proiettati recta via nella sfera giuridico-patrimoniale dell’interessato, il quale deve pertanto adempiere le obbligazioni assunte in suo nome. Nel secondo caso valgono le regole in tema di mandato senza procura, di guisa che l’interessato dovrà tenere indenne il gestore delle obbligazioni assunte in nome proprio e rimborsargli le spese necessarie o utili con gli interessi dal giorno in cui sono state fatte. Il gestore è tenuto a continuare la gestione e a completarla finché l’interessato non sia in grado di provvedervi autonomamente (art. 2028, comma 1, c.c.).
Alla luce delle delineate coordinate ermeneutiche, sostiene la Corte, coglie nel segno quella parte della giurisprudenza che, sulle orme di un’autorevole dottrina, ravvisa nella negotiorum gestio i tratti distintivi dell’obbligazione – che nasce per effetto della libera determinazione del gerente – senza obbligo primario di prestazione, da cui discende la eventuale responsabilità ex art. 1218 c.c., quale conseguenza della c.d. mala gestio (in questo senso, Cons. Stato, sez. IV, 2 maggio 2022, n. 3426; Cons. Stato, sez. IV, 20 gennaio 2020, n. 567, 5054/2012).
Applicando tali principi al caso di specie, il Collegio osservava che la Società appellante, seppur non obbligata, per le ragioni in precedenza esposte, alla effettuazione delle opere di bonifica, assumeva spontaneamente l’impegno di eseguire un complessivo intervento di bonifica, presumibilmente motivata dalla necessità di evitare, nel caso di realizzazione delle operazioni di bonifica da parte dell’amministrazione, il rimborso a quest’ultima del costo delle spese affrontate, sia pure nei limiti del valore di mercato del sito ( c.d. onere reale).
Ne discendeva che, ai sensi dell’art. 2028 c.c., l’attività utilmente iniziata dall’odierna appellante doveva essere portata a compimento, o comunque proseguita finché l’amministrazione non fosse stata in grado di far subentrare l’autore dell’inquinamento. Lo schema della gestione di affari, come sopra sintetizzato, richiede, infatti, che, come verificatosi nella fattispecie in esame, vi sia la consapevolezza dello stato di contaminazione dell’area e della necessità di eseguire la bonifica secondo le direttive stabilite dall’amministrazione.
La Sezione riteneva corretto quanto rilevato dal giudice di prime cure, poiché, nel caso in disamina, la bonifica era stata attuata in sostituzione dell’autore dell’inquinamento, restando fermo che il proprietario avrebbe avuto il diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese sostenute (pur se si tratta del dante causa), “a condizione che sia stata rispettata la procedura amministrativa prevista dalla legge ed indipendentemente dall’identificazione del responsabile dell’inquinamento da parte della competente autorità amministrativa, senza che, in presenza di altri responsabili, trovi applicazione il principio della solidarietà” (Cass. civ., Sez. III, ord., 22 gennaio 2019, n. 1573).
Con il secondo mezzo di gravame la parte appellante lamentava la violazione del principio di proporzionalità, assumendo di aver concluso la fase di indagine relativa allo stato di contaminazione del sito con la presentazione dell’analisi di rischio e di aver manifestato espressamente alla Regione la volontà di non voler eseguire la bonifica. Dal che sarebbe discesa l’illegittimità dei contestati provvedimenti in quanto costituivano “un aggravamento dell’onere originariamente assunto sproporzionato rispetto ai costi di intervento relativi alla esecuzione delle indagini di caratterizzazione e manifestamente ingiusto”.
Anche questo motivo non veniva considerato fondato.
Come è noto il principio di proporzionalità, di derivazione europea, impone all’amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato. Alla luce di tale principio, nel caso in cui l’azione amministrativa coinvolga interessi diversi, è doverosa una adeguata ponderazione delle contrapposte esigenze, al fine di trovare la soluzione che comporti il minor sacrificio possibile: in questo senso l’esercizio del potere in esame rileva quale elemento sintomatico della correttezza dell’esercizio del potere discrezionale in relazione all’effettivo bilanciamento degli interessi.
Il principio di proporzionalità, secondo l’impostazione più accreditata, postula un giudizio valutazione che si articola in tre passaggi successivi, che prevedono l’utilizzo di altrettanti criteri di valutazione (c.d. “teoria dei tre gradini”):
– l’idoneità della decisione a raggiungere lo scopo, intesa come rapporto fra mezzo utilizzato e fine da raggiungere. Secondo questo primo indice di valutazione, la soluzione prospettata dalla pubblica amministrazione dev’essere effettivamente idonea a realizzare gli obiettivi legittimi di interesse pubblico o la tutela di diritti fondamentali, per come dichiarato dalla stessa amministrazione;
– la sua necessarietà, intesa come inesistenza di alternative più miti per il raggiungimento dello stesso risultato. In base a tale criterio, la scelta amministrativa deve necessariamente ricadere su quella che determini il sacrificio minore per i soggetti che ricevono un pregiudizio dalla decisione: in questo secondo passaggio si ha, dunque, un quid pluris rispetto al primo, consistente nella valutazione delle alternative plausibili per il raggiungimento degli stessi interessi pubblici con misure meno gravose;
– l’adeguatezza o proporzionalità in senso stretto, intesa come tollerabilità della decisione da parte del suo destinatario. In virtù di quest’ultimo indice valutativo, l’amministrazione deve effettuare una ponderazione armonizzata e bilanciata degli interessi, onde verificare se la misura sia “non eccessiva” rispetto all’obiettivo da perseguire.
Come ha avuto, infatti, modo di chiarire il Consiglio di Stato, proprio con riferimento al principio di proporzionalità in senso stretto come sopra delineato, la proporzionalità non deve essere considerata come un canone rigido e immodificabile, ma si configura quale regola che implica la flessibilità dell’azione amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. V 21 gennaio 2015 n. 284) e come concreto bilanciamento tra interessi potenzialmente antagonisti.
Come noto, il bilanciamento tra interessi potenzialmente incompatibili è una vicenda di allontanamento più o meno intenso da quel nucleo di massima protezione e che dipende dalle relazioni di prevalenza o subordinazione che, all’interno della ponderazione, si stabiliscono con i principi concorrenti.
Nel caso di che trattasi, le prescrizioni della conferenza di servizi e i conseguenziali provvedimenti sacrificavano in modo proporzionato e nella misura strettamente necessaria l’interesse economico della società appellante, per tutelare l’interesse ambientale e sanitario perseguito con riguardo a profili tecnici ineccepibili.
Inoltre, ad ulteriore sostegno di questa conclusione, il Collegio evidenziava che i provvedimenti contestati non violavano il principio di proporzionalità anche in base alla considerazione per cui, coerentemente con le delineate note strutturali dell’istituto della negotiorum gestio, si erano limitati a ribadire l’obbligo, di per sé già discendente dalla legge (art. 2028 c.c.), di portare a termine esclusivamente le attività conseguenziali alla originaria manifestazione di spontanea gestione delle operazioni di bonifica.
Con il terzo motivo, la Società mirava a contestare l’automatica assunzione della qualifica di soggetto responsabile dell’inquinamento adducendo, ex multis, la circostanza dell’avvenuto trasferimento della proprietà del sito inquinato in favore di altra società.
A tal riguardo il Collegio osservava che la cessione della proprietà del sito non determina una vicenda estintiva, né a livello soggettivo, né a livello oggettivo, dell’obbligazione volontariamente assunta (con l’inizio delle operazioni di bonifica), venendo nel caso in esame in rilievo un’obbligazione di fonte legale, discendente da un fatto/atto idoneo, ai sensi dell’art. 1173, a generare la nascita di un’obbligazione in capo al soggetto che ha spontaneamente intrapreso la gestione dell’attività di bonifica.
In tale direzione deponeva anche la considerazione che, anche nel caso di cessione di azienda, l’art. 2560, comma 1, c.c. espressamente dispone che, dopo la cessione, il cedente rimane ex lege titolare degli obblighi (e, più in generale, delle posizioni di responsabilità) rivenienti dalla gestione del ramo di azienda precedente alla cessione.
Nella specie, peraltro, come correttamente osservato dal giudice di prime cure, secondo la Corte non emergeva l’assenso del creditore (individuabile nel Ministero dell’Ambiente, quale Ente esponenziale dell’interesse della collettività nazionale alla salubrità ed all’integrità ambientale e, successivamente, nella Regione) alla liberazione del cedente, dal che discendeva, in base ai principi generali sulla successione particolare nel debito, l’inconfigurabilità di una successione c.d. privativa.
Secondo il Consiglio, contrariamente a quanto ritenuto dalla società appellante, la fattispecie della traslazione dell’obbligo di bonifica a carico del successore si verifica nel diverso caso, non ricorrente nella specie, della successione a titolo universale, ovvero quando si sia verificata l’estinzione soggettiva del cedente (si pensi all’incorporazione): in tali ipotesi, come chiarito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la responsabilità per l’inquinamento e, quindi, il connesso dovere di bonifica passano in capo al successore in universum jus (cfr. Adunanza Plenaria n. 10 del 22 ottobre 2019; v. anche Cons. Stato, Sez. V, 23 dicembre 2019, n. 8720 e 30 dicembre 2019, n. 8912).
Per questo motivo, secondo il Consiglio di Stato, ne discendeva che Società appellante era senz’altro tenuta ad eseguire la bonifica, pur se, in epoca successiva agli episodi di contaminazione, aveva ceduto a terzi il ramo di azienda ovvero la proprietà dell’area interessata.
Con un quarto mezzo di gravame la parte appellante, muovendo dall’assunto di non essere più proprietaria del sito, assumeva di non avere alcun obbligo in relazione alla gestione della barriera idraulica. Ciò in quanto le acque della barriera idraulica confluivano in un unico punto di scarico in cui confluivano anche le altre condotte del sito e quindi l’amministrazione non poteva imporre alla Società di “continuare a gestire una barriera idraulica in relazione ad un sito produttivo con attività il cui proprietario e gestore è un altro soggetto”.
Inoltre, la parte appellante assumeva l’irragionevolezza della prescrizione di imporre il pompaggio del piezometro a valle tenuto conto del fatto che, in base ai dati tecnici disponibili, quali risultati anche dal monitoraggio mensile, la barriera esistente avrebbe dovuto considerarsi efficace per contenere il flusso di acque, che, fra l’altro, traevano, secondo la Società, un carico contaminante significativo dall’esterno del sito.
Anche il quarto motivo risultava non fondato.
Secondo il Consiglio di Stato non poteva essere condiviso l’assunto della sufficienza della barriera esistente per contenere il flusso di acque. Oltre al fatto che, contrariamente a quanto sostenuto dalla società appellante, non vi era un valido riscontro in ordine alla sussistenza di altre fonti inquinanti, l’adottata prescrizione appariva rispondere ai principi di precauzione e di prevenzione.
La Sezione chiariva che il principio di precauzione consiste, come noto, in un criterio di gestione del rischio in condizioni di incertezza scientifica e che tale principio risponde, dunque, alla necessità di fronteggiare e/o gestire i c.d. “rischi incerti”.
Muovendo da tale preliminare considerazione, è possibile coglierne il principale tratto distintivo rispetto all’idea di “prevenzione”.
Mentre, infatti, la “prevenzione” può entrare in gioco solo a fronte di “rischi certi”, ossia in presenza “di rischi scientificamente accertati e dimostrabili, ovverosia in presenza di rischi noti, misurabili e controllabili”, la “precauzione”, al contrario, trova il proprio campo di applicazione allorché un determinato rischio risulti ancora caratterizzato da margini più o meno ampi di incertezza scientifica circa le sue cause o i suoi effetti.
Il fondamento concettuale della logica precauzionale, come rilevato da autorevole dottrina, può essere ricondotto al principio del cd. maximin, in base al quale, quando si tratta di assumere una decisione in condizioni di incertezza, le scelte devono essere valutate tenendo conto del peggior scenario possibile in termini di possibili conseguenze.
Ne discende che, in nome dell’idea di precauzione, l’intervento preventivo non può attendere l’inconfutabile prova scientifica degli effetti dannosi, ma deve essere predisposto sulla base di attendibili valutazioni di semplice possibilità/probabilità del rischio, sulla base delle conoscenze scientifiche e tecniche “attualmente” e “progressivamente” disponibili.
Posto quanto innanzi, secondo il Consiglio, nel caso di specie, era giusto arrivare ad un analogo risultato anche con riguardo alla prescrizione in forza della quale era stato imposto alla ricorrente, relativamente alle acque emunte dalla barriera idraulica, il trattamento mediante TAF al fine di garantire la conformità all’art. 243 comma 6 del d.lgs. 152/06.
La tesi dell’appellante muoveva, infatti, dalla non corretta premessa per cui le acque emunte dalla falda non potevano essere equiparate ai rifiuti liquidi. Secondo l’orientamento interpretativo del Consiglio di Stato, invece, cui le acque emunte di regola devono essere ricondotte all’interno della categoria dei rifiuti liquidi, non potendosi in linea di principio ritenere che la norma di cui all’art. 243 consenta una equiparazione tout court tra le acque di falda emunte nell’ambito di interventi di bonifica di siti inquinati e le acque reflue industriali (Consiglio di Stato sez. II, 19/03/2015, n. 3396).
Sulla medesima linea si era già attestata la precedente giurisprudenza del Consiglio di Stato, la quale aveva chiarito che “è quindi da disattendere l’assunto della società appellante tendente ad escludere a priori, ai sensi dell’art. 243 d.lgs. 152/06, la riconduzione delle acque emunte in attività di disinquinamento della falda dal regime dei proprio dei rifiuti liquidi: al contrario, l’individuazione del regime normativo concretamente applicabile non può non tenere conto della particolare natura dell’oggetto dell’attività posta in essere, siccome individuati dal legislatore quali rifiuti liquidi, come emerge dalla classificazione attraverso i codici CER allegati al decreto” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 6 dicembre 2013, n. 5857).
Alla luce delle complessive ragioni che precedono l’appello veniva respinto.
Lascia un commento